A Povegliano le ricamatrici mettono in mostra un momento della nostra storia
di BEATRICE CASTIONI
Un evento ricorda la bachicoltura e l’inizio di un’attività cruciale per molte donne
di BEATRICE CASTIONI
Raccogliere memoria, restituire storia. Questo il manifesto alla base della mostra “Filo filò. Storie di ricamatrici. La manualità delle donne nel tempo”, allestita presso gli spazi del centro sociale di Povegliano, in collaborazione con l’associazione culturale Anteas La Madonnina, l’associazione di studio e ricerca Ivres Verona e il museo del ricamo Don Mazza di Verona.
Una storia che racconta della creatività e della tenacia delle donne in un’epoca nella quale studiare e scegliere gli stessi lavori degli uomini non era possibile, e che parte da un’esigenza. Le piccole famiglie contadine dell’Ottocento e dei primi del Novecento non potevano contare su grandi entrate economiche, così l’idea di allevare i bachi da seta per la creazione di seta naturale si era dimostrata subito redditizia. Si trattava del primo raccolto sicuro su cui il nucleo familiare poteva fare affidamento, necessario per poter saldare i debiti e pagare il conto aperto in bottega, comprare piccoli attrezzi per il lavoro dei campi o animali.
Allevare i bachi non era però un’attività improvvisata: bisognava possedere la licenza, ed erano effettuati corsi di addestramento in casa direttamente dai consorzi della zona, che fornivano anche la semenza. “A San Zen la somensa en sen”, si diceva. La semenza era infatti inserita in sacchettini all’interno dei reggiseni di allora, in modo che potesse stare al caldo, e anche la temperatura della casa doveva restare costante giorno e notte. Quante nottate in bianco per controllare che i bachi restassero in vita! Una gestazione diversa, ma altrettanto preziosa, per le donne di famiglia.
Dopo 40 giorni, i “bacolini” nascevano e potevano essere venduti alle famiglie che lo avevano richiesto; le loro case si erano già trasformate per il nuovo arrivo: la camera da letto padronale, di solito la più calda, veniva completamente stravolta per ospitare degli impianti di legno, le arele, sui quali erano depositati i bachi. Le foglie di gelso, cibo prediletto dei nuovi ospiti, riempivano le stanze con i loro profumi. «La bachicoltura – illustra Gabriella Poli, presidente di Ivres Verona – era importante per il sostentamento dei contadini, tanto che, se la stagione cominciava con cattivi presagi (la presenza di formiche a guastare l’allevamento), le donne di casa chiedevano una benedizione ai frati per i loro cari cavaleri».
Una volta che terminavano di cibarsi, i bachi cominciavano a tessere: tutti i bambini erano affascinati da quella che definivano la stanza del tesoro, dentro la quale era severamente proibito entrare. Ma alcuni riuscivano a rubare un piccolo bozzolo come ricordo, ben attenti a non farsi scoprire. Ecco che una volta pronta, dopo aver gettato i bachi in acqua bollente o averli essiccati per impedire al bozzolo di rompersi e rovinare così il filato, la seta veniva lavorata nelle filande, seconde case per ragazze e madri dell’epoca, ma anche per bambine non ancora adolescenti. Un’infanzia costruita sul dovere del lavoro e del rispetto, ancor prima dei sogni e del gioco, della spensieratezza e dell’inconsapevolezza. Ma c’era bellezza, affermano le donne che la mattina inforcavano le loro biciclette, pedalavano per chilometri e raggiungevano le filande: entravano col sole alto sulla testa e rivedevano la loro piccola bicicletta solo dopo il tramonto.
Creative e tenaci, le donne. Nella seconda metà dell’Ottocento il Veronese vide nascere diverse scuole di ricamo, religiose e laiche. Un padre chiese aiuto per dare un futuro alle due figlie: una richiesta, una risposta immediata. Don Nicola Mazza riflettè sulla condizione delle donne povere del tempo, senza prospettive; decise allora di offrire l’istruzione di base per la formazione personale e aprire una scuola di ricamo per le prospettive lavorative. «Grazie ai vari laboratori tra i quali era possibile scegliere, le ragazze potevano esplorare il settore nel quale avevano più talento – spiega Gabriella Gallo, presidente della Pia società maestre cooperatrici dell’Istituto Don Mazza –. In seguito l’allievo di don Mazza, mons. Luigi Giacomelli, proseguì l’impegno del predecessore e accolse nuove allieve: ecco che i loro lavori erano creati per la Chiesa, per le famiglie importanti e per privati benestanti».
Si iniziava a lavorare la mattina presto e la notte era fatta per racimolare qualche compenso extra da tenere per sé. «Sull’esempio di don Mazza, pure suor Evelinda, delle Suore della Misericordia, è stata una figura importante per il territorio veronese, in particolare per la zona di Caprino – continua Maria Teresa Girardi, coordinatrice del Gruppo artigianato femminile di Caprino –. Queste persone davano un’occasione unica alle donne, una scuola di ricamo che si trasformava ben presto in scuola di vita».
Non mancavano corsi professionalizzanti gestiti da laici, come la scuola intitolata a Caterina Bon Brenzoni, benefattrice comunale. Spiega Gloria Maroso, responsabile dell’Archivio storico del Comune di Verona: «Il ricamo era una parte importante di questa scuola, che permetteva alle giovani di contribuire all’economia domestica e di rendersi più autonome». Era da qui che venivano creati i corredi di nozze, la dote: lenzuola, asciugamani, strofinacci, camicie da notte… Con l’avvento delle macchine da cucito negli anni Sessanta, il ricamo a mano venne messo da parte a favore di velocità ed efficienza, ma rimase lo zoccolo duro di ricamatrici che lavoravano perché era la loro vita, era socializzazione, emancipazione, soddisfazione ed estro creativo. Raccogliere la memoria di Primarosa, Gina, Laura, Sandra. Restituire la storia di tutte le donne che ancora ricordano le loro fatiche come una porta spalancata sul mondo, sul futuro.
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