Quattro piccole luci nella notte dei lager
di MARIA VITTORIA ADAMI
La coinvolgente testimonianza di Edith Bruck, l'amica del Papa sopravvissuta alla Shoah
di MARIA VITTORIA ADAMI
Quattro luci si accesero nel buio dell’esperienza del lager come scintille di vita, seppur schizzate via da una violenza furente. Bastarono per ricordarle che era al mondo, che esisteva. E che doveva sopravvivere e tornare a casa. Per vivere, ma anche per raccontare ciò che è stato, perché, come le ha confermato papa Francesco, incontrandola di recente, «basta una voce sola in questo mare nero». «Ognuno di noi può fare qualcosa, non solo noi sopravvissuti», ricorda Edith Bruck, ebrea ungherese italiana d’adozione, scampata ai campi di sterminio. Lo ha detto al Papa che l’ha ricevuta donandole uno scialle, mentre lei gli ha offerto un pane, simbolo dell’inizio della sua drammatica esperienza nei lager. E lo ha ricordato al pubblico del polo Santa Marta dell’Università di Verona con il quale si è collegata da Roma, affiancata dalla storica Michela Ponzani, la settimana scorsa, per l’incontro “Ho promesso che parlerò. Il lungo viaggio di Edith Bruck nella memoria della Shoah”, introdotto dalla professoressa Olivia Guaraldo e dal professore di storia contemporanea Renato Camurri, dell’ateneo veronese.
Nata Edith Steinschreiber, in una povera e numerosa famiglia ebraica, nel 1931, a Tiszabercel, paesino ungherese, era una ragazzina quando fu deportata nella primavera del 1944. Sopravvissuta ai «campi di annientamento», come li definisce, di Auschwitz, Dachau e Bergen-Belsen, oggi è diventata scrittrice, poetessa, regista, soprattutto testimone della Shoah. Nel suo peregrinare senza sosta, dopo la liberazione, ha trovato un «luogo in cui vivere» in Italia: «In Ungheria ero un’ungherese, in Israele un’ebrea, qui sono una sopravvissuta». Da qui la scelta di restare e di utilizzare la lingua italiana per scrivere la sua testimonianza nelle pagine di romanzi e volumi di poesie, «nella lingua non mia» che le consente di mantenere il distacco necessario. Perché «non ci sono parole e non è possibile raccontare fino in fondo», spiega. «Ci vorrebbe un vocabolario per poter dire quello che ho visto e quello che ho sentito. È irracontabile». Eppure l’antisemitismo è ancora rinfocolato. «Non è mai stato sradicato. L’uomo è fallito. Tenta di negare i suoi misfatti e crimini e non si è confrontato con il suo passato e non ha insegnato quello che doveva insegnare. E la massa applaude e non pensa. Per questo sbuca fuori tutto. Per questo io andrò avanti fino all’ultimo fiato. Non è facile essere sopravvissuta e non è facile essere testimone. Quando arrivai in Italia ero gonfia, scoppiavo di parole e ho iniziato a scrivere e finalmente, alla ricerca di un nido possibile, ho trovato questo Paese. Sono sbarcata a Napoli. C’era qualcosa di familiare, sorrisi, sguardi, panni sballonzolanti alle finestre. Qui posso vivere, mi sono detta».
È il 1944. Una mattina di primavera, poco prima della Pasqua, la madre sta sorvegliando il pane lievitato all’alba. L’ha impastato con la farina che le ha regalato una vicina di casa, non ebrea, ma sensibile alla loro povertà. All’improvviso «i fascisti», i gendarmi ungheresi, buttano giù la porta a calci e uno di loro, poco più che ventenne, schiaffeggia il padre di Edith mentre quest’ultimo, nell’estremo tentativo di difendersi, mostra le medaglie al valore che gli hanno conferito dopo la Prima Guerra mondiale. «Queste non valgono più, disse il giovane dandoci cinque minuti per uscire. Quando lo vidi schiaffeggiare mio padre capii che qualcosa di enorme stava per succedere. E noi figli diventammo genitori di nostro padre e nostra madre». Edith si fa adulta di colpo. La famiglia viene condotta nel ghetto della città. Da lì, la giovane affronta il primo viaggio della sua vita: caricata su un treno merci diretto ad Auschwitz. La madre non fa che piangere il suo pane perduto pettinandole i capelli. «Una volta arrivati ci fecero scendere dal vagone come immondizia. Poi ci misero in fila per la selezione. A destra si andava ai lavori forzati. A sinistra alle camere a gas. Il programma era di annientare tutti fino ai 16 anni e dai 65 anni in su. Giudicavano dagli sguardi. Mi indicarono la sinistra con mia madre, alla quale mi aggrappai con le unghie. Ma un tedesco mi sussurrò di andare a destra. Io non volevo lasciare mia madre, lei mi disse di obbedire. Ma non volevo lasciarla. Lui insisteva. Io anche. Allora mia madre si inginocchiò e supplicò il tedesco. Lui la colpì, lei cadde a terra. Non la vidi più. E io sopravvissi». È la prima luce, come la definisce Bruck. La prima possibilità di sopravvivere gliela fornisce con rabbia un tedesco. Edith trova una delle sorelle. Vengono rasate, sopportano la fame, tengono lontani i pidocchi perché il tifo petecchiale è uno dei pericoli maggiori: al minimo cenno di cedimento, la via è quella delle camere a gas. Il tempo medio di sopravvivenza, lì, è di due mesi. Ma le due sorelle superano selezioni continue. «Si doveva sopravvivere, giorno dopo giorno. Ci svegliavamo ogni mattina con un morto accanto». Poi Edith viene trasferita a Dachau. «Mi mandarono in un campo in un castello, a pelare patate. Fu lì che si accese la seconda luce quando un cuoco mi chiese come mi chiamavo e mi regalò un pettinino. Aveva una figlia della mia età, mi disse. Ebbene, quella domanda mi ricordò che esistevo ancora e mi diede speranza. Papa Francesco ha ripetuto questa domanda quando l’ho incontrato e ho pensato a quella frase che voleva dire speranza, che c’era ancora umanità. Aveva un significato totalizzante perché mi dava la forza di andare avanti in quel buio totale».
Nel buio, rinfocola quella luce. La terza è una goccia di marmellata che le cade sul labbro quando un tedesco le sbatte in faccia una gavetta della colazione. Lo sente il dolore, Edith. Soffre. Ma quel frammento dolce le ricorda la vita e spinge la notte ancora più in là. Da Dachau viene di nuovo trasferita a Bergen-Belsen. Dopo una marcia della morte arriva in un campo coperto di cadaveri di uomini. Le donne devono portarli alla torre della morte trascinandoli con uno straccio. Ci sono anche dei sopravvissuti, morenti. Uno le rivolge la parola: «Se sopravvivi, racconta». «Fu la mia quarta luce. E ora sono qua». Edith scopre di essere ancora viva quando il 15 aprile 1945 gli Alleati liberano il campo e chiedono ai prigionieri di spogliarsi per lavarsi: «Ero stata nuda tante volte davanti ai tedeschi, ma quando lo chiesero loro, mi vergognai. Finalmente provavo un sentimento umano». Ancora oggi si commuove a raccontare la sua storia. La voce si rompe, le lacrime scendono.
Edith non rivedrà la madre, il padre e un fratello. Ma le difficoltà non sono finite. L’Ungheria non è un paese ospitale, quando vi ritorna, e così cerca di raggiungere, invano, una sorella in Cecoslovacchia. Nel 1948 se ne va in Israele dove si sposa e prende il cognome Bruck, ma lascia il Paese nel 1954 non riconoscendosi in quello Stato e non sopportando di dover indossare la divisa per il servizio militare. Arriva, infine, in Italia dove diventa una scrittrice della Shoah di quella «seconda generazione di autori che negli anni Cinquanta-Sessanta produce molti testi di importanza letteraria, una generazione di memorialisti che precede la grande ondata degli anni Novanta», ha spiegato Camurri. Stabilitasi a Roma, dove ancora oggi risiede, nel 1959 pubblica la sua prima testimonianza: Chi ti ama così, un’autobiografia che ha per tappe l’infanzia in riva al Tibisco e la Germania dei lager. Del 1962 è il volume di racconti Andremo in città da cui il marito Nelo Risi trae l’omonimo film. Nel 1988 esce Lettera alla madre, nel 2009 Quanta stella c’è nel cielo dal quale Roberto Faenza prende spunto per il film Anita B. Del 2021 è Il pane perduto, una riflessione che parte proprio da quel pane che la madre non riuscì a portare con sé. Bruck lascia romanzi e poesie che oggi aiutano a non lasciar scorrere il passato senza trarne le regole per andare avanti: «Il senso della Giornata della memoria – ha infatti concluso Guaraldo – sta nel non fare della storia qualcosa di altro o di passato che guardiamo con sguardo celebrativo. È qualcosa che è sempre presente nel nostro oggi e ci deve chiamare a ingaggiarci in quello che è successo. È un passato che non deve passare». E tutti siamo chiamati a fare qualcosa. È il monito di Edith Bruck.
(Foto Vatican Media/sir)
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