Scuotere la Generazione H dall'isolamento digitale
Internet dà dipendenza e il problema è grave tra i più giovani, dove spopolano giochi pericolosi e comportamenti estremi. E gli educatori?
Adolescenti, preadolescenti e dipendenza da internet. Un problema su cui il mondo della scuola, i genitori e gli educatori sono chiamati ad interrogarsi. «Un tema di attualissima importanza», lo ha definito il vescovo mons. Giuseppe Zenti, introducendo l’annuale incontro con i dirigenti scolastici, organizzato dall’Ufficio scuola diocesano, che proprio di questo si è occupato avvalendosi del contributo di Maria Rita Parsi, psicologa, psicoterapeuta e scrittrice. Parsi, da sempre impegnata nella tutela giuridica e sociale di bambini e adolescenti – su cui ha lavorato anche all’Onu – definisce i nati nel nuovo millennio Generazione H, che è anche il titolo del suo ultimo libro, scritto con Mario Campanella, nel quale affronta i problemi educativi, relazionali e psicologici originati dalla rivoluzione digitale.
La lettera H sta per “hikikomori”, coloro che si ritirano dalla vita sociale per lunghi periodi, richiudendosi nella propria stanza e rifiutando ogni tipo di contatto diretto con l’esterno; una pratica partita dal Giappone e in espansione anche in Occidente, con giovani che rifiutano il mondo reale per interfacciarsi esclusivamente con quello digitale.
La loro esistenza è affidata a un avatar, a un nickname; dormono di giorno, chattano di notte, non escono mai di casa e limitano allo stretto indispensabile anche le interazioni con i familiari.
È solo una delle derive sociali portate dalla diffusione capillare di internet, ma si potrebbero citare anche la “Blue whale”, un sadico giochino psicologico che ha portato adolescenti all’autolesionismo e al suicidio; o il sexting, la pratica di inviare in chat propri testi, immagini o video sessualmente espliciti.
All’origine di queste derive giovanili sta, secondo Parsi, l’incapacità degli adulti di vigilare e controllare questo nuovo universo: «Famiglia e scuola, le due principali agenzie educative, sono bypassate dal web – ha spiegato nel suo intervento davanti al provveditore e ai dirigenti scolastici veronesi – perché non hanno le competenze per intervenire».
I figli, ancora bambini, si affacciano al mondo digitale senza essere accompagnati, senza la mediazione dei genitori; sono sostanzialmente abbandonati a se stessi con la convinzione – prima di tutto dei genitori – che ciò che è virtuale non abbia risvolti reali. Autonomamente fanno esperienza della violenza, dei ricatti, della sessualità morbosa, del fallimento, perché le regole, le norme di comportamento e i valori sul web sono assenti.
«Non sto demonizzando uno strumento che ormai c’è, così come è arrivata la scrittura o la stampa in passato. Ma senza regole, senza controllo, senza mediazioni culturali non si può procedere». Quindi regole, norme e leggi per gestire l’universo web sono il primo passo da compiere. Ma è necessario il recupero di una «coscienza sociale» su cui gli educatori (scuola e famiglia in primis) siano in prima fila, impegnandosi nello sviluppo delle competenze e nella formazione digitale degli adulti.
Il cuore della proposta della Parsi rimangono gli istituti scolastici, da trasformare in poli culturali a trecentosessanta gradi, con biblioteche, teatri, spazi di incontro, presentazioni di libri e un’équipe socio-psico- pedagogica permanente a disposizione di insegnanti e genitori. Nulla di utopico, secondo l’autrice, visto che alcuni progetti pilota sono già stati realizzati, ad esempio in un istituto di Messina. «La scuola, che ha perso l’occasione dell’educazione civica, ha perso l’occasione dell’educazione sessuale, non può perdere l’occasione dell’educazione virtuale dei giovani. Ma occorrono competenze specifiche, deve essere una materia di studio, oltre la semplice cittadinanza digitale».
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