Piccolo non è sempre bello
Non sappiamo produrre di più e meglio perché siamo piccoli, lo sono le nostre aziende in generale, incapaci quasi sempre di fare il salto in avanti
Sia detto con estrema franchezza: piccolo non sempre è bello, anzi! In un’epoca in cui ci sentiamo rinfrancati dall’artigianalità delle cose, dalla “genuinità”, dalla dimensione prossimale (si pensi al km zero, all’orto casalingo, alla panificazione domestica…), dobbiamo pure renderci conto che tutto ciò è un limite, e pure severo.
Se le medicine le facesse ancora lo speziale con mortaio e alambicco, saremmo avvolti dalle virtù dell’echinacea ma nessuno avrebbe mai potuto sviluppare un vaccino contro un terribile virus nell’arco di un solo anno. Ci vogliono laboratori attrezzati, personale specializzato, dimensioni ragguardevoli e fondi altrettanto imponenti per capire i segreti della biochimica molecolare e dotare l’umanità di miliardi di dosi di vaccino.
Se le auto fossero costruite da piccole carrozzerie specializzate che le rifiniscono centimetro per centimetro, avremmo le Rolls Royce per quattro ricchi, mentre noi ci dovremmo accontentare del carretto. Se nonno Nanni facesse il suo formaggio con la caldera nella stalla, tale bontà (non estremamente salubre) la gusterebbero i compaesani, ma a casa nostra non arriverebbe mai…
Insomma, ci sono due questioni da affrontare: una culturale e una economica. I processi industriali e la logistica non sono affatto nemici dell’umanità, sono anzi la base del nostro progresso. Quando ci schifiamo davanti ad un “prodotto industriale”, dimentichiamo che solo così è diventato accessibile pure ai comuni mortali e non solo a nobili e monarchi; che certi standard garantiscono salubrità, sicurezza nel lavoro, qualità valutabili. Che la ciliegia cilena è arrivata fino a noi (orrore!), ma anche che il vino abruzzese viene così venduto in Pennsylvania.
Le verdure del nostro orto sono le migliori, la stagionalità è importante, il mercatino del contadino lo frequentiamo in molti. Ma a casa non mangeremmo un singolo spaghetto se dietro non ci fossero estese coltivazioni di grano duro, molini, farine esportate via nave, pastifici industriali e punti vendita facilmente accessibili.
La questione economica, poi, riguarda l’Italia in particolare. Al di là del fatto che le spalle grosse (leggi le multinazionali) sopportano pesi maggiori e non soffrono al primo alitare di vento, c’è la questione della produttività. Cioè l’innovazione, il produrre di più e meglio a costi inferiori, insomma quel che fa la fortuna di un’azienda rispetto all’insuccesso di un’altra.
Ebbene, la produttività italiana – praticamente ferma da un ventennio – ultimamente è addirittura calata. Mentre il resto dei nostri “concorrenti” l’accresce al ritmo dell’1-2% annui.
Insomma, pian piano il made in Italy fa un passino dietro l’altro in direzione dell’uscita dal mercato. Non sappiamo produrre di più e meglio perché siamo piccoli, lo sono le nostre aziende in generale, incapaci quasi sempre di fare il salto in avanti.
Questo è un tema enorme perché l’Italia del 2100 rischia di essere la sorella povera dell’Italia del 2020. E ricordiamoci che bisnonno Nanni viveva in media fino a 60 anni, non a 85 come oggi.
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