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«Migranti, solo demagogia. È fenomeno da analizzare»

di ANDREA ACCORDINI

Il sociologo Allievi: slogan riduttivi per una questione complessa

Parole chiave: Allevi (1), Sociologia (1), Migrazione (5)
«Migranti, solo demagogia. È fenomeno da analizzare»

di ANDREA ACCORDINI

Cosa spinge l’uomo a migrare? Perché la storia dell’umanità è una storia di migrazioni? E più in generale, cosa cos’è che ci fa muovere? Il bisogno di denaro, di sicurezza, ma anche di una speranza, di un sogno da inseguire, di un’affermazione, di un’evasione? 
A queste e ad altre domande cerca di offrire una risposta nel suo ultimo libro il sociologo Stefano Allievi, docente ordinario di Sociologia all’Università di Padova, specializzato nello studio dei fenomeni migratori. Il suo Torneremo a percorrere le strade del mondo. Breve saggio sull’umanità in movimento (edizioni Utet, giugno 2021) diventa così un’analisi lucida sulla mobilità umana, solitamente “più discussa in chiave polemica che pensata”. Proprio partendo dal suo ultimo lavoro, abbiamo rivolto al professore qualche domanda per addentrarci in questi temi. 
– Prof. Allievi, nel suo volume invita il lettore ad assumersi il “coraggio della complessità” verso il tema dell’immigrazione. Ci può anticipare a cosa si riferisce?
«Diciamo che c’è una tendenza ad affrontare questo, come altri fenomeni, in maniera non semplice, ma semplicistica, ossia riducendo tutto a slogan. “Prima gli italiani” ne è un esempio, ma pensiamo anche a slogan a favore dell’accoglienza indiscriminata. Ebbene, gli slogan non ci danno alcun dato di realtà, servono a posizionarsi, a dire con chi stai e soprattutto contro chi stai; ma non ti fa capire le situazioni. C’è invece bisogno di avere contezza delle cose. Nel dibattito pubblico mancano spesso i dati, quelli fondamentali, quelli banali. In altre parole, io non capisco niente di una barca nel Mediterraneo se guardo solamente la barca. Devo vedere che succede a monte, in Africa, a valle, in Europa, ma anche come vive il Paese di destinazione. Per esempio, i temi che vanno sicuramente collegati all’immigrazione sono innanzitutto l’emigrazione, poi la demografia e il mercato del lavoro. Se li mettiamo insieme, cominciamo a capire qualcosa». 
– E, nello specifico, cosa possiamo iniziare a capire?
«Primo, che ogni anno dal 1995 abbiamo più morti che nati. Da 25 anni, mica da ieri. E cominciamo a parlarne oggi. Nella differenza tra morti e nati, fino al 2019 spariva ogni anno l’equivalente di una città come Padova, da 200mila abitanti. Con il risultato che siamo il Paese più vecchio d’Europa e uno dei più vecchi al mondo. Secondo aspetto, l’emigrazione, che nel sentire comune vive in un rapporto di causa-effetto con l’immigrazione. Cioè crediamo che se avessimo meno immigrati, avremmo meno emigrati. Invece è vero il contrario: se non avessimo immigrati, avremmo ancor più emigrati e anche disoccupati. Perché gli immigrati sono prevalentemente operai che lavorano in specifici settori, dal bracciantato alla ristorazione, al facchinaggio, alla logistica… Ma l’80% dei giovani italiani che entrano nel mercato del lavoro hanno almeno un diploma e quei lavori li escludono a prescindere, persino dal salario. O li vanno a fare in una grande capitale europea, dove hanno altri vantaggi e sarà solo per una fase transitoria, perché sono Paesi in cui c’è una forte mobilità sociale. Ecco, questi sono alcuni esempi di complessità». 
– Riguardo al binomio immigrazione-emigrazione, lei scrive di una “asimmetria morale”. A cosa si riferisce nello specifico?
«L’asimmetria morale è plateale. Provi a dire a qualunque italiano che non può più andare all’estero, che occorre il visto per andare in Francia o che si fa un muro al Brennero… Quando si tratta della nostra mobilità, siamo “turboliberisti”; quando si tratta della mobilità degli altri, vogliamo mettere freni. Anche contro il nostro interesse. Cioè se io o lei vogliamo andare in Ghana, compriamo un volo e partiamo. Se un ghanese vuole venire in Italia, semplicemente non può, perché avrebbe bisogno del visto e noi il visto per la ricerca del lavoro non glielo concediamo. Il risultato è che sono aumentate di molto le immigrazioni irregolari. E questa è una precisa scelta nostra. Trent’anni fa l’irregolarità era una piccola quota, fisiologica, sul totale degli immigrati. Oggi è irregolare la quasi totalità di chi entra. Ecco perché è prioritario riaprire dei canali regolari di ingresso». 
– Mobilità e migrazioni vanno di pari passo?
«Nel libro ho voluto collegare le migrazioni alla mobilità in generale, per spiegare come questa sia insita nell’umanità; siamo nati nomadi e nei paradigmi mitologici e biblici la mobilità è sempre stata una possibilità dell’uomo. E quindi ha senso porsi il problema del diritto ad emigrare senza rischiare di morire e di come regolamentarlo. In un Paese si può scegliere chi entra e chi esce, i confini servono a questo. Trasformati in muri, fanno danno altrui, ma anche a noi. Se gli altri non possono entrare, noi non potremo più uscire. È una spirale che si autoalimenta». 
– È un circolo vizioso...
«È un circolo svantaggioso, soprattutto. I giovani sanno che la mobilità fa curriculum: avere esperienze di vita e studio internazionali è un vantaggio competitivo nel mercato del lavoro. A parità di titoli e requisiti, i datori scelgono chi è più internazionale. Aggiungiamo i vantaggi di crescere intellettualmente e socialmente. Ed è evidente che le mobilità della cultura, dei prodotti, delle persone, delle idee… sono tutte collegate e destinate a crescere. Comprese le migrazioni, perché oggi costano meno, anche umanamente e psicologicamente: possiamo rimanere in contatto grazie alla tecnologia e le distanze si sono ridotte». 
– Quindi la mobilità umana è un dato di fatto?
«Certo. Non la chiamo un problema; è come la tecnologia che, sviluppandosi, produce dei problemi, ma anche delle soluzioni per quei problemi. E scopriamo sempre che, in fondo, i vantaggi sono superiori agli svantaggi. Così è per la mobilità». 
– In Italia si tende però a limitare lo sguardo all’emergenza sbarchi. Perché? C’è una volontà politico-propagandistica o vede anche una componente xenofoba? In altre parole, l’africano è percepito come “più diverso” rispetto ad un immigrato dell’Est Europa?
«Nel 2019 non abbiamo parlato d’altro che di sbarchi. Quell’anno sono stati 13mila. Gli emigranti nello stesso anno sono stati 285mila e non ne ha parlato nessuno. L’immagine media dell’immigrato è un africano, mentre più della metà degli immigrati in Italia sono europei. C’è una speculazione politica di chi ha interesse ad enfatizzare tutto questo senza risolverlo, offrendo anzi soluzioni semplicistiche: “mandiamoli a casa loro”; ma sarebbero poi gli imprenditori e i privati cittadini, che hanno colf e badanti stranieri, ad opporsi. Poi è normale che la persona di colore si noti di più. Non c’è niente di male. Il problema è invece se si pensa che uno di colore è per forza un immigrato». 
– Ma queste percezioni non stanno evolvendo?
«Nelle giovani generazioni le cose sono molto cambiate. Ci sono oggi seconde generazioni di immigrati che vivono insieme agli italiani dal nido. E gli italiani si accorgono a 14 anni che i loro amici non hanno la cittadinanza e si domandano perché. In questo le cose cambiano. Il ruolo della scuola è fondamentale, così come il lavoro e tutti i luoghi della socialità. Oggi, stando ai dati, i matrimoni misti (italiani-stranieri) sono più del 15% del totale dei matrimoni. Significa che c’è una quota di popolazione a cui la diversità piace, tanto che… se la sposa!». 

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