«Mafia: il volto feroce in Calabria la cravatta e i soldi nel Veneto»
di ADRIANA VALLISARI
La magistrata Frustaci: tornata nella mia terra per cercare di cambiarla
di ADRIANA VALLISARI
«Se vogliamo sconfiggere il fenomeno mafioso, dobbiamo agire sull’ambiente in cui viviamo. A 18 anni ho scelto di andar via dalla Calabria per studiare Giurisprudenza a Pisa: ne avevo viste fin troppe di ingiustizie. Da magistrato, nonostante la possibilità di scegliere fra diverse sedi prestigiose, ho deciso di tornare. “Chi le cambia le cose, se tutti ce ne andiamo?”, mi sono chiesta. È molto più facile criticare che provare a restare». Ha fatto una scelta di vita, Annamaria Frustaci, mettendosi in prima linea nella lotta alla mafia: oggi è sostituto procuratore alla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, guidata dal magistrato Nicola Gratteri; da due anni, dopo il maxiprocesso “Rinascita Scott”, vive sotto scorta.
Nel 2022, trentennale dell’uccisione dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Mondadori le ha chiesto di scrivere un libro per divulgare la legalità fra le giovani generazioni: è nato così La ragazza che sognava di sconfiggere la mafia. Un romanzo che ha come protagonista Lara, una tredicenne calabrese che sperimenta cosa significa la parola “giustizia”; per la prima volta Frustaci l’ha presentato nel Veronese, a 1.200 ragazzi delle scuole di Soave, San Bonifacio e Colognola ai Colli. Chissà se, dopo averla ascoltata, qualcuno di loro entrerà in magistratura, proprio com’era successo a lei sentendo parlare al suo liceo Gherardo Colombo, uno dei pm del pool di Mani Pulite... In un incontro serale con la cittadinanza, organizzato dalla libreria Bonturi, insieme a parrocchia e Comune di San Bonifacio, Frustaci ha spiegato che le mafie sono sempre più sofisticate, specie quando agiscono al Nord: si insinuano in appalti, turismo, commercio. Anche il nostro Veneto, e Verona, non ne sono esenti.
– Che cos’è il fenomeno mafioso oggi?
«Le mafie hanno un unico comune denominatore: la sete di ricchezza e di potere. C’è però una differenza sostanziale tra le realtà in cui mi trovo a operare con i colleghi, in Calabria, e quelle del Nord Italia o del Nord Europa. Prendiamo la poverissima provincia di Vibo Valentia: qui si arriva a sacrificare la vita di un uomo per il pagamento di poche migliaia di euro o si commettono omicidi con l’autobomba, che ricordano la Sicilia degli anni ’80. Dall’altra parte, invece, ci sono realtà economicamente floride che subiscono infiltrazioni importanti. La ‘ndrangheta si struttura in modo differente a seconda del contesto in cui si trova: in Calabria è efferata e violenta e ha un volto diverso da quello che può assumere in realtà come Lombardia o Veneto».
– Qui si presenta in giacca e cravatta?
«Sì, e non è una battuta. Lo dicono gli stessi malavitosi intercettati: “Non dobbiamo più andare a chiedere il pizzo, dobbiamo offrire sostegno agli imprenditori che non hanno accesso al credito, così possiamo prenderci l’impresa stessa”. Abbiamo sentito dire a uno zio ‘ndranghetista al nipote: “Non temere, al mondo c’è solo una distinzione: tra ciò che è Calabria e ciò che lo diventerà”. Hanno una grande presunzione di superiorità e pensano di infiltrare le economie sane, dove questo fenomeno è scarsamente conosciuto».
– La recente revisione del Codice degli appalti ha sollevato dubbi da più parti...
«Oggi ci confrontiamo con una criminalità organizzata capace di avvalersi di figure professionali di altissimo spessore, a tutti i livelli. Ci vuole una pianificazione strategica: è chiaro che non possiamo aspettare che ci sia l’appropriazione di denaro pubblico per far intervenire ex post la magistratura. Dobbiamo immaginare una rete di verifica preventiva e di controllo istituzionale a monte, non dopo, quando il denaro è già andato, le opere restano incompiute e il cittadino ne fa le spese».
– Falcone e Borsellino avviarono nuovi metodi di indagine, cercando prove concrete dei flussi di soldi. Oggi che strumenti di contrasto avete?
«Per dare delle risposte di giustizia il magistrato si adopera con gli strumenti previsti dalla legge. Spesso sfugge, ma è il legislatore l’artefice principale delle regole di indagine: ci sono delle scelte che non competono alla magistratura e alle forze dell’ordine, sono di natura squisitamente politica. Per esempio, contrastare il crimine economico, che oggi sfrutta le piattaforme delle criptovalute, implica una volontà politica sovranazionale di imporre, tramite un serio intervento normativo, a chi fa le transazioni di denaro di registrarsi e di lasciare una traccia, togliendo l’attuale anonimato».
– Invece del 41bis, il regime di carcere duro che ogni tanto viene rimesso in discussione nel dibattito pubblico, cosa pensa?
«Può sembrare un istituto desueto, rispetto alle esigenze di recupero del detenuto, ma sono dell’idea che vada conservato. Il problema, verificato, è che talvolta dal carcere i capi malavitosi, che non mostrano segnali di aver compreso il disvalore di quanto commesso, riescono a mantenere contatti con l’esterno, ad esempio con missive che contengono solo un disegno o dei simboli religiosi, usati per comunicare in codice. Gli adeguamenti alla normativa europea che ci vengono richiesti li dobbiamo conciliare con la realtà italiana: in Europa non è ancora ben conosciuta».
– Come possiamo crearci degli anticorpi, come società?
«Nel libro cerco di porre l’accento sull’importanza dell’istruzione: la cultura è un’arma di conoscenza e di prevenzione. Per guardare con occhi nuovi a questi fenomeni non bisogna avere pregiudizi: ci sono situazioni difficili da comprendere, ma va ricercato cosa non ha funzionato nella rete istituzionale, familiare, scolastica di un certo territorio. Matteo Messina Denaro, catturato dopo 30 anni di latitanza – un traguardo importantissimo per il nostro Paese – prima di essere il capomandamento di Castelvetrano è stato un ragazzino, un figlio, uno studente. Una persona su cui forse il disvalore che gli ha trasmesso l’ambiente in cui ha vissuto e la società in cui si è formato hanno avuto la preponderanza. Noi siamo la cultura che assorbiamo, siamo ciò di cui circondiamo».
– Il titolo del suo libro evoca il sogno di sconfiggere la mafia: resta un sogno?
«È un sogno, ma i sogni possono essere premonitori, dobbiamo impegnarci affinché non svaniscano all’alba. La criminalità organizzata non la combattono solo i magistrati, anzi: i cittadini possono agire ogni giorno scegliendo la legalità. Questo sogno collettivo, però, deve essere supportato da azioni concrete, che nascono da precise decisioni politiche. Ognuno deve fare la sua parte».
Non sei abilitato all'invio del commento.
Effettua il Login per poter inviare un commento