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La storia del cioccolato si scarta dentro un libro

di ADRIANA VALLISARI
Aziende, cioccolatini, grandi mangiatori, idee vincenti...

 

La storia del cioccolato si scarta dentro un libro

di ADRIANA VALLISARI
 

Lo sapevate che in Italia la cioccolata si mangia in forma solida solo dal 1832? Ovvero da quando una delle più antiche famiglie di cioccolatieri, la Majani di Bologna, inventò la “scorza”: una sfoglia sottile, arricciata su sé stessa, simile alla corteccia di un albero; prima, la cioccolata si gustava solo in tazza. È una delle tante curiosità raccolte nel libro Il cioccolato e il suo passato, curato da Valerio Bigano, docente di Tecniche grafiche speciali all’Accademia di Belle Arti di Verona, grafico pubblicitario e appassionato ricercatore con 21 pubblicazioni specialistiche all’attivo, dai liquori alla pasta. Nel periodo natalizio ha presentato la sua ultima fatica a Colognola ai Colli, invitato dall’associazione culturale Quo Vadis.
Bigano è cresciuto tra cioccolato, gelati e meringhe. Il papà Giovanni, classe 1911, era un pasticcere d’origine torinese che aveva diretto un biscottificio di proprietà inglese in Kenya. Rientrato in Italia, si sposò nel 1947, trasferendosi poi a San Bonifacio, dove trovò un caffè-pasticceria da gestire per tutta la vita. «Il libro è un tributo d’amore verso mio padre: si sarebbe divertito a sfogliarlo e a ritrovare aziende che conosceva, confezioni e pubblicità che usava per il suo lavoro», riconosce l’autore, che ha consultato materiali d’epoca da collezionisti, musei d’impresa e archivi. Sono oltre 300 le aziende cioccolatiere storiche – cioè con almeno 70 anni d’età, dalla fine del ’700 al 1950 – passate in rassegna, di cui una quarantina ancora attive. Molte erano concentrate in Piemonte, patria dell’arte dolciaria. Fino al boom economico, tavolette e praline erano dei lussi per ricchi, che ne andavano ghiotti, come testimonia una nota spese emessa dai Fratelli Stratta il 31 gennaio 1860 a Camillo Cavour: 2.500 lire per una fornitura annuale, pari a 12mila euro attuali... Se si parla di cioccolatini, quello torinese per eccellenza è il gianduiotto. Fu inventato dalla Caffarel – azienda fondata nel 1826 da Pierre Paul Caffarel, di origini valdesi – in occasione del carnevale di Torino del 1865: era un omaggio a Gianduia, la popolare maschera della città sabauda.
Quanto a icone, vogliamo dimenticare il “Bacio”? «Risale al 1922 e fu Luisa Spagnoli, moglie di Annibale, uno dei quattro soci della Perugina, ad avere l’intuizione di miscelare il cioccolato con la granella di nocciole, residuo di altre lavorazioni, perché nulla andasse sprecato – spiega –. Lei lo battezzò “cazzotto” perché le ricordava un pugno chiuso, poi il nome venne cambiato in “bacio”, più fortunato». A far decollare le vendite ci pensarono le illustrazioni di Federico Seneca: sua è la scatola che richiama i due amanti del quadro di Hayez; sua l’ideazione del cartiglio, il bigliettino con le frasi d’amore che ancora oggi avvolge il prodotto. Seneca non mancò di audacia: in piena Italia fascista e coloniale, raffigurò una donna bianca che danzava con un uomo di colore, manifesto che fu prontamente censurato dal regime.
Altro colpo di genio fu quello di inserire le figurine per bambini nelle confezioni. «La mania scoppiò sempre con la Perugina, che nel 1934 investì nella sponsorizzazione di un seguitissimo programma radiofonico, “I quattro moschettieri”, associandovi una raccolta di figurine ispirata ai personaggi, fra cui l’introvabile “feroce Saladino”, e un concorso con in palio premi che andavano dalle confezioni di cioccolatini alle ambitissime Fiat Topolino», illustra Bigano. Per l’auto occorreva consegnare 150 album completi, ciascuno da 100 figurine: tra il luglio 1936 e il marzo 1937 ben 200 automobili furono regalate in tutta Italia. Sempre in tema motori, ma vent’anni prima, era stata la Majani a ideare il “Cremino Fiat”, vincendo un concorso indetto nel 1911 dall’omonima casa torinese per il lancio della Tipo 4, l’ultimo modello di vettura. Un’altra rappresentazione iconica del cioccolato fu quella della “Premiata fabbrica cioccolato” Talamone; nel 1850 rilevò – sempre a Torino, dove sennò? – la “Moriondo & Gariglio & C.”, una delle più importanti fabbriche di cioccolato dell’800: produceva 300mila kg annui di cioccolatini e tavolette e, solo nel reparto incarto cioccolatini, contava 200 operaie, assunte soltanto se avevano il palmo della mano freddo, per non danneggiare il cioccolato.
Dal 1890 la Talamone fu resa riconoscibile grazie all’immagine stampata sulle latte di cacao: una premurosa vecchietta che riempie una tazza di cioccolata calda al sorridente consorte. «Ebbe subito uno strepitoso successo, in Italia e all’estero: le istruzioni per diluire correttamente il cacao nel latte per ottenere una tazza di cioccolata a regola d’arte erano riportate sulle confezioni in quattro lingue, fatto assai poco comune per l’epoca», sottolinea Bigano. Nel gustosissimo libro – per informazioni si può scrivere una mail a valerio@bigano.it – mancano fabbriche di cioccolato veronesi. «Non è una svista, ma perché non ce n’è nessuna – spiega il ricercatore –. La più vicina si trovava nel Vicentino, fondata a Schio nel 1890 dai fratelli Fongaro, che più tardi con Giuseppe Saccardo diedero vita al “Cioccolato Dolomiti”». Diverse, infine, sono le donne che ebbero un ruolo di primo piano nell’impresa cioccolatiera. Tra le pioniere spiccano Onorina Gay, la prima donna a vedere il suo cognome nel marchio; Giselda Balla Monero, che nel 1934 acquistò la torinese Leone (quella delle famose pastiglie); Olga Torri, vedova di Luigi Zaini, che guiderà con determinazione la Zaini, azienda madre dei “Boeri”, grande successo degli anni ’50. Quanta storia dentro un semplice cioccolatino! 

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