«Il papà 2019: responsabile, disponibile e capace di voler bene»
Intervista allo psicoterapeuta Alberto Pellai: di paternità si parla troppo poco. Quella di oggi...
«Di paternità si parla troppo poco»: tolta la ricorrenza di San Giuseppe, il resto dell’anno questo tema scivola via. Le sfide della genitorialità sono pane quotidiano per Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, nonché padre di quattro figli, che da anni cura per Famiglia Cristiana una rubrica molto letta, in cui emergono dubbi, paure ed emozioni dei papà di oggi.
Da ricercatore del Dipartimento di Scienze Bio-Mediche dell’Università degli Studi di Milano, Pellai ha all’attivo decine di pubblicazioni dedicate alle relazioni genitori-figli. Tra queste, Nella pancia del papà; il 2 aprile, invece, uscirà il suo ultimo libro Da uomo a padre. Il percorso emotivo verso la paternità (Mondadori).
– Un tempo il padre era la figura autorevole, talvolta rigida e poco affettuosa, che in famiglia aveva l’ultima parola. Il suo ruolo negli ultimi decenni è cambiato in modo radicale: quand’è iniziata questa rivoluzione?
«Le grandi modificazioni sono avvenute col movimento del ’68, con la critica alle regole del potere imposto, e poi negli anni ’70. Il mondo delle donne ha chiesto agli uomini di lavorare sul tema degli eguali diritti e doveri all’interno della famiglia e anche sul lavoro, chiedendo pari opportunità. Gli uomini hanno dovuto cambiare. Prima, in quanto maschi, la loro posizione era data: erano quelli che portavano a casa il sostentamento economico e in società avevano in mano le redini del potere. Dagli anni ’70 tutto è diventato più flessibile e dialettico. Si è passati così dalla figura del padre che si faceva obbedire usando la potenza del ruolo al padre che si fa ascoltare perché usa la competenza del ruolo».
– Ecco, come sono i padri di oggi?
«Hanno imparato a essere genitori, intessendo una connessione intima coi propri figli. Di conseguenza, si sono appassionati al ruolo. Per gli uomini è stata una rivoluzione: sono diventati più responsabili e più consapevoli del percorso emotivo della paternità. E questo giova sia a loro che alla prole».
–In che modo la figura paterna incide sullo sviluppo dei figli? In altre parole, perché c’è bisogno del padre?
«Perché i cuccioli d’uomo sono impegnativi e hanno un’evoluzione più lenta: la maturazione cognitiva richiede quasi vent’anni per arrivare nella zona della stabilità adulta. A differenza degli animali, noi non dobbiamo solo sopravvivere, ma dare senso all’esistenza e quindi c’è bisogno di tempi lunghi. Lasciare tutto questo lavoro di accompagnamento a una sola persona è stremante, perciò si è generato il meccanismo della coppia affettiva, che ha la dimensione della corresponsabilità. C’è poi un altro aspetto: per crescere è necessario un equilibrio tra le funzioni di protezione e di esplorazione. Per diventare grande, cioè, il bambino deve imparare a indagare cosa c’è fuori dal nido. Mentre la dimensione materna è quella protettiva – d’altronde ha tenuto la nuova vita per nove mesi in grembo –, i papà sono più bravi nelle funzioni esplorative, che comportano il prendere per mano il figlio e portarlo all’esterno. Non per niente i padri sono quelli che spingono l’altalena più in alto o sperimentano l’ebrezza di una discesa in bici senza freni. Sono due funzioni complementari, che si alternano, ma entrambi i codici servono».
–Ci sono delle regole da seguire per essere bravi papà?
«La dimensione cruciale è costruire una vera relazione con i figli. Per riuscirci bisogna curare tre dimensioni: la responsabilità, ovvero farsi carico della crescita e tutelarne i bisogni; la disponibilità emotiva, ossia essere padri con le braccia aperte, da cui figli sanno di poter sempre tornare; il coinvolgimento, coltivando dei momenti esclusivi. Inoltre è importante indagare la connessione emotiva che abbiamo con i nostri figli e quella da cui proveniamo, specie se siamo stati cresciuti dai papà di una volta. No ai padri irraggiungibili: un tempo erano seduti in poltrona e nascosti dietro al giornale, oggi rischiano di scomparire dietro a telefono e computer, sempre in guerra col tempo».
– Ogni età ha le sue peculiarità, ma c’è una sfida più grande delle altre?
«I momenti forti sono due. Quando il bambino è neonato e tutto si esprime col tatto: c’è un passaggio delle mani sul bambino, dal bagnetto al cambio pannolino, con cui i papà hanno pochissima familiarità. L’altro è quello della pre-adolescenza e della prima adolescenza, quando il figlio esce e va nel mondo. Le mani del papà sono quelle che spingono verso l’esterno, ma pure quelle pronte a riprenderlo se rischia troppo o si fa male».
– In Italia, quando si parla di denatalità, il tema spesso è associato in automatico alle donne. La questione però è anche maschile e, tra i freni alla crescita, c’è pure lo scarso sostegno alla genitorialità e la carenza di servizi per la conciliazione famiglia-lavoro. Lei che ne pensa?
«La natalità in Italia è spaventosamente abbandonata dal mondo delle politiche familiari. Scegliere di fare famiglia è una corsa a ostacoli, dove i potenziali genitori restano in bilico, precari, molto soli. C’è però un ulteriore elemento: credo ci sia una povertà culturale dei maschi nel mostrare la realizzazione di sé stessi connessa al diventare padri. Accade anche tra i personaggi pubblici: il mondo femminile parla di maternità a 360 gradi, degli uomini invece non sappiamo mai nulla. C’è una scissione molto forte: solo Obama e Renzi, per citare due esempi famosi, hanno mostrato di aver investito molto nella famiglia».
– E tutti gli altri?
«Anche nel quotidiano gli uomini faticano a raccontare la paternità. È più facile parlare della propria squadra del cuore o di politica. Va invece animata la capacità degli uomini di fare gruppo attorno alla paternità, di trovare altri papà a cui ispirarsi. Personalmente, ho preso consapevolezza di questo frequentando i corsi di preparazione al parto con mia moglie, durante i quali noi uomini siamo trattati alla stregua di protesi. Oggi la trasformazione da uomo a padre non è sostenuta da nessuno. Ma diventare padri non è una questione privata, occorre condividerla e affrontarla tutti insieme».
Adriana Vallisari
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