I figli, specie in via di estinzione
Se le culle sono sempre più vuote il problema è più grande di un bonus. Dati disperanti che fanno il paio col crollo dei matrimoni: questione culturale
Se le culle sono sempre più vuote il problema è più grande di un bonus
Dati disperanti che fanno il paio col crollo dei matrimoni: questione culturale
Nel 2008 nacquero in Italia 577mila bambini; appena un decennio dopo, nel 2017 ne sono nati 417mila: 160mila in meno in così pochi anni, un esercito sparito, quasi diecimila classi scolastiche cancellate. E nel 2018 non ci sarà alcun segno più.
Il numero medio di figli per donna, in Italia, si è assestato a 1,34. Il più basso in Europa, uno dei più bassi nel mondo. Il cosiddetto tasso di sostituzione (cioè il numero di figli per donna tale da lasciare inalterato il livello demografico) sta a 2. Ciò vuol dire che, nel corso di questo secolo, l’Italia perderà alcuni milioni di abitanti: si dice che dai 60 milioni attuali scenderemo a 40.
Tralasciamo l’altra conseguenza, quella di una popolazione in cui gli over 65enni sono più dei minorenni. Prendiamo in considerazione un altro dato, quello dei matrimoni celebrati: 191mila nel 2017, ben 12mila in meno rispetto all’anno precedente. Un calo di quasi il 6% che, nella nostra storia, è secondo solo a quello del 1975, l’anno dopo il referendum sul divorzio.
Calano tutte le tipologie di matrimonio, sia quello civile sia quello religioso, in continua e rapida contrazione da molti anni. Il problema è connesso alla natalità: meno matrimoni, meno figli, dicono gli statistici. E il calo delle nozze concordatarie aggrava il problema, perché sono appunto queste che – successivamente – hanno una genitorialità maggiore rispetto al rito civile, per tante ragioni testimoniate dai numeri statistici.
La crisi economica degli scorsi anni ha aggravato tutti questi indici, ma ormai certe considerazioni sono chiare: non è (solo) una questione economica. Bonus e fattore famiglia possono aiutare, ma difficilmente incentivano. La questione sta più a monte, è ben più vasta ed è prettamente culturale.
Matrimonio e figli si sono allontanati dal nostro orizzonte esistenziale, punto. Poi subentrano altre questioni: la precarietà lavorativa; l’ingresso tardivo nel mondo del lavoro; il primo figlio che normalmente arriva a quasi 32 anni di età (per la donna) e il conseguente calo della fertilità media; l’addio alle culle del Meridione, che non fa più figli. L’unica isola felice, demograficamente parlando, è Bolzano, che è ricca come Milano o Biella ma, appunto, ha un’altra cultura della famiglia e dei figli.
E allora si tocca il vero punto dolente: l’aspetto culturale. È qui che bisogna agire. Come? Ma anche: chi? È solo una “fissa dei cattolici”?
Per consolarci, leggiamo le parole di Camillo Regalia, psicologo del Centro studi per la famiglia della Cattolica di Milano: «I giovani vogliono 2 o 3 figli, non c’è mai stata così tanta voglia di genitorialità». Fosse vero, è una pianta che va sapientemente innaffiata
Nicola Salvagnin
«Lavorare sul valore della vita e delle relazioni»
La Chiesa è chiamata a dare testimonianza positiva
Se la formula fosse quella economica, sarebbe forse più semplice trovare la soluzione.
Stili di vita mutati rispetto al passato, precarietà lavorativa, salari molto bassi hanno esercitato sì un impatto diretto sulla dimensione (pure numerica) delle famiglie italiane. Ma le cause di tale situazione, con una natalità ridotta ai minimi storici, sono ben più profonde: vanno ricercate nel cuore di una società che non riesce più a coltivare relazioni. Viviamo insomma in un mondo che ha smesso di fare bambini. Per quale ragione?
Non è faccenda di economie
Elargire un bonus bebè non basta per cercare di invertire la tendenza e risollevare le nascite: «È giusto che il fatto di diventare genitori non sia penalizzante per una coppia sul piano economico, ma la questione è un’altra. Riguarda il senso dell’essere padri e madri», segnala Gianni Tomelleri che, assieme alla moglie Francesca Buio, compone la coppia presidente del Centro di pastorale familiare della Diocesi.
Per esemplificare volge lo sguardo alle giovani generazioni: «Gli adolescenti di oggi sono per buona parte orfani. Vivono contenuti e coccolati, ma manca chi dia loro un indirizzo preciso, di conseguenza sono privi del senso di essere figli. Hanno genitori che li hanno messi al mondo, ma che non li indirizzano verso il senso del generare la vita, intesa come dono». Sono ragazzi privi di bussola: senza riferimenti, faticheranno a trovare la direzione.
Pure il senso del dono si è affievolito nel tempo, prosegue Tomelleri, con annesse conseguenze: «È un diritto scegliere di avere o meno un figlio, così come lo è accettare o no una gravidanza oppure ricorrere alla contraccezione. I figli non sono più la normale espressione di una vita forte che trova compimento, ma quel “di più” che è possibile scegliere di avere o di non avere. Ed evidentemente i dati dicono che in Italia si decide di non averne. Prevale la prospettiva di ottenere, di reclamare diritti. Non quella di donare».
Essere famiglia è una vocazione
Nei percorsi che al Centro di pastorale familiare coinvolgono le coppie di fidanzati, spiega, un tema importante e su cui è doveroso insistere è quello dell’apertura alla vita. Talvolta infatti capita che ci siano dei giovani che mettono il “fare famiglia” in secondo piano rispetto alla conquista di alcune sicurezze: dalla carriera lavorativa all’indipendenza economica, dall’acquisto della casa alla costruzione di solide basi.
Di riflesso, chiarisce, «l’avere figli viene rimandato in avanti negli anni. Il nostro obiettivo come Chiesa è quindi testimoniare la bontà e la ricchezza di una coppia, di un uomo e di una donna che scommettono sul matrimonio, che è un dono di Dio e non soltanto una decisione civile e propria. Essere famiglia è qualcosa di più della semplice somma di due individui, di due intenzioni, di due cammini. È una chiamata a generare non solamente una vita, ma la stessa Chiesa e l’umanità».
L’alternativa è un impoverimento nel concepire sé in quanto uomo e donna: «È sentire il donare come l’assolvimento di una possibilità, non come qualcosa di importante nel senso della carità e dell’amore più puro, che è un amore donativo, e del mantenimento della famiglia e della umanità».
Bisogna rigenerare la cultura della vita
La società è profondamente mutata rispetto al passato, fa notare don Francesco Pilloni, direttore del Centro di pastorale familiare. E se una volta avere figli era il fine primario del matrimonio, evidenzia, «ora siamo arrivati quasi alla mentalità opposta, perché si pensa l’uomo individualmente, non all’interno di una relazione. Questo tipo di cultura è molto pericoloso, perché è contrario alla vita, che è generazione e amore. Aspetto che non riguarda solo il fare figli, ma il portare avanti relazioni filiali, paterne, amicali, affettive, sociali in generale».
Questo atteggiamento diffuso, incalza, «è generativo di ateismo in senso cristiano perché un Dio trinità di amore, è un Dio che dà vita. È segno forte di abbandono di fede cristiana viva nella carne e nel vissuto. Dio è padre, noi siamo l’immagine di Dio e dovremmo vivere in modo divino, generando vita». Invece la società si disgrega, le relazioni si fanno frammentarie e superficiali, domina quell’individualismo contro il quale il Papa si schiera esortando le giovani generazioni a intessere legami. «Le relazioni vere nascono nelle famiglie. E il problema è soprattutto culturale, perché anche chi potrebbe fare figli, sceglie di non averne», fa notare don Pilloni.
E la Chiesa, come si è attrezzata per intervenire, nel tentativo di invertire la rotta?
«Abbiamo avuto una fase in cui, come Chiesa, difendevamo il valore della vita con una forte sottolineatura etica. Adesso dobbiamo ricostruire il tessuto umano sensibile alla vita, intesa quale valore, in tutte le sue dimensioni. In questo c’è una forte esperienza di Dio e dobbiamo riscoprirne il valore profondo: la capacità, insita in noi, di amare che coincide con la capacità del dare vita». È un passaggio difficile, chiosa, «in cui è opportuno preservare la linfa dell’umanità che, superato questo momento, troverà nuovo equilibrio. È come se l’assenza di vita a cui ci condanniamo dovesse a breve far rifiorire nell’uomo una concezione più profonda e consapevole. Dobbiamo rigenerare la cultura della vita, mantenendo il senso di essere persona come relazione».
Marta Bicego
«Meno chiacchiere e più politiche sconfiggeranno la bassa natalità»
Il prof. Rosina: «Più servizi e flessibilità lavorativa: guardiamo alla Francia»
Il sorpasso è arrivato: per la prima volta gli ottantenni italiani sono più dei nuovi nati. Quali sono le radici di questo squilibrio? E si può ancora invertire la rotta? Abbiamo interpellato Alessandro Rosina, docente di Demografia all’Università Cattolica di Milano, che ha analizzato il fenomeno nel suo ultimo libro, Il futuro non invecchia (Vita & Pensiero).
– Professore, ci spiega come siamo arrivati a questi numeri?
«Rispondo con quattro dati che aiutano a orientarsi nella lettura della situazione demografica del Paese. Primo: le nascite di oggi sono più che dimezzate rispetto a quelle a metà degli anni Sessanta. Nello stesso periodo il numero medio di figli per donna è sceso da 2,7 a 1,3. Secondo: il numero di nati registrati nel 2017 (ma i dati del 2018 non sono in controtendenza) è il più basso dall’unità d’Italia in poi, compresi i due conflitti mondiali».
– In altri Paesi c’è stata una diminuzione altrettanto drastica?
«No, e questo è il terzo dato. In Francia, ad esempio, il numero medio di figli per donna è rimasto vicino a due (livello di equilibrio generazionale), con la conseguenza che l’ammontare delle generazioni nate nell’ultimo mezzo secolo risulta sostanzialmente stabile. Poi c’è un quarto dato: se si confronta il numero desiderato di figli tra ventenni italiani e coetanei europei, i livelli sono del tutto simili e tale valore è in media attorno a due. Questo significa che in Italia non solo si fanno meno figli rispetto alla media europea, ma anche rispetto al numero desiderato dai giovani e dalle coppie italiane».
– Oggi il primo figlio arriva sempre più tardi o non arriva proprio. È un riflesso del cambiamento della società e degli stili di vita o c’entra anche altro? Non può essere solo colpa dei giovani.
«L’arrivo del primo figlio è rimasto l’ultima scelta irreversibile nel processo di transizione alla vita adulta (mentre sempre più accade di uscire e poi tornare a vivere con i genitori, formare un’unione di coppia e poi tornare single, trovare lavoro e poi perderlo o cambiarlo). La possibilità effettiva di realizzare tale scelta è frenata in Italia dalla difficoltà delle nuove generazioni a entrare in modo solido nel mondo del lavoro: l’Italia presenta tassi di occupazione giovanile tra i più bassi in Europa, ma anche alto rischio di povertà per chi forma una propria famiglia prima dei 35 anni. Come mostrano anche i dati del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo, le nuove generazioni desiderano far crescere i figli in un contesto di sicurezza, con adeguate cure e benessere».
– La situazione d’incertezza porta a posticipare la formazione di una propria famiglia.
«Condizionandola all’aver terminato gli studi, all’aver trovato un lavoro abbastanza stabile e con uno stipendio che consenta uno standard di vita dignitoso, alla prospettiva di poter acquistare casa. La difficoltà a realizzare tali tappe rende i giovani ipercauti, col risultato che siamo diventati il Paese con la più alta età in cui arriva il primo figlio, oltre i 31 anni».
– Di fatto, conciliare ritmi di vita sempre più accelerati con la cura di un figlio risulta un’impresa quotidiana. Tant’è che questo compito spesso ricade sulle mamme, costrette ad abbandonare il lavoro, se ce l’hanno, o respinte una volta che provano a reinserirsi. Solo in Italia accade ciò?
«L’evidenza empirica dimostra che avere una fecondità vicina ai due figli per donna e un’occupazione femminile oltre il 60% sono obiettivi compatibili, a patto di investire adeguatamente in servizi di conciliazione. Noi siamo tra i più lontani da tali livelli; eppure se fosse per i desideri, la volontà e le capacità delle donne italiane, li avremmo già raggiunti. Quello che manca è una politica in grado di sostenere strutturalmente queste loro scelte».
– Con quali conseguenze negative?
«Minor fecondità; maggior invecchiamento della popolazione; minor crescita dell’occupazione (e quindi peggior rapporto anziani inattivi su lavoratori); minor possibilità di valorizzazione del capitale umano femminile; maggior povertà delle famiglie con figli (che devono rinunciare a un secondo reddito); maggiori disuguaglianze sociali, perché ad essere più penalizzate dalla possibilità di conciliare sono le donne con titolo di studio medio-basso; maggiori differenze di genere».
– Non è certo per un bonus bebè che si mette al mondo un figlio. Ci vorrebbero più servizi per l’infanzia, oltre a incentivi fiscali mirati?
«In generale, le misure a favore della famiglia possono rientrare in tre categorie: quelle relative al tempo (come i congedi di maternità e paternità e la flessibilità di orario di lavoro); quelle che riguardano i servizi (per l’accudimento dei figli ma anche dei congiunti anziani non autosufficienti); quelle che agiscono sul sostegno economico (aiuti monetari e sgravi fiscali). Quest’ultima categoria tende ad avere un impatto sulla riduzione del rischio di povertà di chi ha figli. Le prime due categorie, invece, consentono di favorire la scelta di avere un figlio in più per chi ha un lavoro, ma aiutano anche a contenere il rischio di povertà per chi ha figli (in modo non assistenzialistico, grazie all’integrazione positiva con la dimensione del lavoro). Dovrebbero quindi avere la priorità per le ricadute positive che hanno in termini economici, sociali e demografici».
– Nel medio-lungo periodo quali saranno le conseguenze di questo squilibrio demografico sul Paese?
«Partiamo da una considerazione. Se qualsiasi altro bene prodotto nel nostro Paese subisse un crollo, quello che al più si rischia è perdere un settore economico strategico. Anche le nascite possono essere considerate un “bene” prodotto. E se si azzerano, è tutto il Paese, non solo qualche settore produttivo, che chiude».
– Una delle obiezioni più comuni rivolta a chi si preoccupa della bassa natalità è che se diminuiamo, in un mondo che invece cresce, non è così grave.
«Questa obiezione ha alla base elementi condivisibili ma contiene anche un errore fatale. La diminuzione delle nascite non fa diminuire una popolazione in modo proporzionale a tutte le età, la erode dal basso: gli anziani rimangono, mentre si riduce la consistenza delle nuove generazioni. Aumenta quindi il peso della popolazione più vecchia, producendo così squilibri generazionali che più si allargano e più costituiscono un freno alla crescita economica e alla sostenibilità del sistema sociale».
– Ci sono esempi concreti a cui guardare per invertire la tendenza e mettere in atto delle strategie efficaci?
«La Francia è un caso interessante di Paese vicino al nostro che da sempre, in modo continuo e incisivo, fa politiche a favore delle famiglie, con conseguente fecondità rimasta elevata. Anche la Germania va guardata, perché partendo da squilibri demografici peggiori dei nostri ha invertito recentemente la tendenza con un piano solido sui servizi per l’infanzia. In Italia interessante è il caso del Trentino e della provincia di Bolzano. In Alto Adige, in particolare, il numero medio di figli per donna, anziché diminuire negli anni acuti della crisi, ha imboccato una direzione opposta rispetto al dato nazionale, salendo fino a 1,74 nel 2017: un valore che si colloca tra Norvegia e Danimarca».
– Com’è stato possibile?
«La ricetta è semplice. L’attenzione verso le nuove generazioni e le politiche familiari diventano una priorità con impegno al continuo miglioramento. La cultura della conciliazione tra lavoro e famiglia è consolidata nelle aziende come valore condiviso, incluse le piccole imprese alle quali è fornito supporto qualificato per sperimentare soluzioni specifiche e innovative. L’offerta dei servizi per l’infanzia è versatile e diversificata; si stimola anche l’iniziativa privata, ma con garanzia di qualità certificata dal pubblico».
– Volendo, quindi…
«Si può far tornare l’Italia un Paese vitale, con meno chiacchere e promesse e più politiche solide e incisive».
Adriana Vallisari