I colori dell’Afghanistan nella storia senza paura di Sadaf
Le sue meravigliose casacche in vendita «per aiutare il mio popolo»
«Un giorno ero al parco con mio figlio. Una signora mi chiese di dove fossi originaria. “Vengo da Kabul”, le risposi. “Allora sei talebana!”, mi disse lei. Ecco, quel giorno capii che dovevo far conoscere meglio il mio Afghanistan: non poteva essere associato solo a terrorismo islamico, burqa e bombe. Devo far vedere la bellezza della mia terra, non dipinta di nero come molti pensano».
Sadaf Mohammed (al centro con la sciarpa azzurra nella foto, ndr) non ha ancora trent’anni. Da dieci vive a Verona, dove è arrivata nel 2009 col marito Najib, calciatore della Nazionale afghana. Hanno messo radici a seimila chilometri di distanza dalla loro Kabul, ferita da anni di guerra, eppure ricca di umanità e colori. Ed è proprio un filo colorato a legare Verona alla loro capitale d’origine: quello delle meravigliose casacche ricamate da sei donne afghane, cucite da Sadaf e messe in vendita a Veronetta, all’Atelier D-Hub, che ha concesso lo spazio in vetrina.
«Io non sono una sarta, ma mia mamma sì: cuciva giacche, pantaloni e faceva le mutande per i bambini; grazie al suo lavoro fatto in casa ha sostenuto la nostra famiglia – racconta –. Mi diceva: “Devi sederti qui e guardare come faccio, così impari anche tu”; voleva che sapessi arrangiarmi in ogni cosa e quell’insegnamento mi è stato utile». Persino quando ha lasciato la sua amatissima e numerosa famiglia per venire nel nostro Paese, «cercato sull’atlante perché non avevo idea di dove fosse l’Italia».
Per lei, giovanissima, l’impatto con l’Occidente è stato traumatico. «Avevo nostalgia di casa e non conoscevo la lingua, per due anni non sono praticamente mai uscita – racconta –. Poi, pian piano, ce l’ho fatta a inserirmi in questa nuova realtà, imparando l’italiano e frequentando Casa di Ramìa, il centro interculturale del Comune di Verona». Sadaf parlava solo il farsi e un po’ di indiano, ma grazie all’aiuto di altre donne italiane e straniere è entrata in una rete di amicizie che l’hanno fatta sentire meno sola. Tanto da riuscire a far conoscere i suoi talenti agli altri: l’abilità culinaria, cucinando con l’associazione Sapori da ascoltare, e la capacità di modellista, realizzando capi e facendoli sfilare con l’aiuto de Le fate onlus e dei servizi sociali.
Fino al suo ultimo progetto, che si chiama “Nomaesh”, mostrare. Fa arrivare in Italia tessuti ricamati a mano da sei donne di Kabul, inviando a loro il ricavato della vendita degli abiti realizzati. «Purtroppo la situazione per le donne in Afghanistan non è facile: non escono, non studiano e possono lavorare solo stando in casa, perciò aiutarle nella loro indipendenza economica è molto significativo e mi piacerebbe far crescere il progetto», dice Sadaf, che ha avuto la fortuna di studiare fino alle superiori.
Quelle casacche di cotone bianco e azzurro, decorate con maestria, insieme ad altre ornate con specchietti e fasce multicolori, sono esposte all’Atelier di riuso creativo di via Trezza 34. Si possono acquistare spendendo dai 40 ai 60 euro, suonando al laboratorio dal lunedì al venerdì, dalle 9.30 alle 15 (per informazioni: 340.2972835, Facebook DHUB Atelier di Riuso Creativo).
Anche l’Atelier è un luogo speciale: aiuta a far rinascere tante donne in difficoltà. «Si tratta di un laboratorio che affianca madri sole, vittime di violenza e di tratta – spiega Ola Karmowska, educatrice di D-Hub –. Qui, attraverso tirocini finalizzati all’inserimento lavorativo, insegniamo loro un mestiere, usando soltanto materiali di riuso; non ci fermiamo però solo all’occupazione, lavoriamo in rete con altre realtà per rispondere ai bisogni di queste donne in ottica integrata». Le necessità abitative, relazionali, psicologiche ed economiche vengono affrontate con i servizi sociali, il Centro aiuto vita e tante altre associazioni.
Ora D-Hub ospita pure un pezzetto di Afghanistan, con i manichini che mettono in mostra tessuti lontani, che parlano di speranza come gli occhi di Sadaf. «Mi manca il mio Paese e mi manca la mia famiglia, che non vedo da dieci anni – dice la giovane –. Ma sono felice che i miei tre bimbi vivano qua, al sicuro, che possano andare a scuola e avere da mangiare. A Kabul non è così: allora guardo questi vestiti e mi dico che devo mettercela tutta per risollevare la condizione di tante donne meno fortunate e dei loro bambini».
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