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Giovani, carini, emigrati: la scelta dei nostri ragazzi

Veneti (e veronesi) sempre più all’estero: ecco perché. All’estero per fare più carriera: una scelta che conquista i veneti. Oltre 13mila hanno fatto le valigie nel 2018: molto qualificati e ambiziosi

Parole chiave: Giovani (99), Emigrazione (3), Emigranti (2), Ragazzi all'estero (1)
Giovane in aeroporto con i bagagli pronti per la partenza

Più di 13mila cittadini veneti nel solo 2018 hanno fatto le valigie per trasferirsi all’estero: si tratta soprattutto di giovani che cercano altrove quelle occasioni di affermazione professionale che faticano a trovare in Italia, o che troverebbero in scala minore. E quattro giovani studenti su cinque si dichiarano pronti ad esperienze di vita all’estero: segno anche di un’apertura mentale che travalica confini e provincialismi. Una scelta che ha fatto una coppia di professionisti veronesi con i due figli appresso in quel di Londra, una delle mete più gettonate dai nostri giovani che ha superato la Germania quale prima meta di destinazione.

All’estero per fare più carriera: una scelta che conquista i veneti
Oltre 13mila hanno fatto le valigie nel 2018: molto qualificati e ambiziosi
Più di 13mila cittadini veneti hanno fatto la valigia nel 2018 per trasferirsi fuori dall’Italia. Il saldo degli espatri arriva dal Rapporto italiani nel mondo presentato a fine ottobre dalla fondazione Migrantes. La nostra è la seconda regione da cui sono partiti più italiani: uno su dieci, precisamente 13.329. Per numero di emigrati siamo dietro alla Lombardia, che mantiene un solido primato. Su quasi cinque milioni di abitanti, i veneti iscritti all’Aire – ossia l’anagrafe degli italiani residenti all’estero – ormai superano quota 430mila. In estrema sintesi, non vive più in Veneto l’8,8 per cento dei veneti. Un numero impressionante se si considera che dal 2006 al 2019 la mobilità italiana è aumentata del 70,2 per cento, passando da 3,1 milioni a quasi 5,3 milioni. La provincia di Verona è il fanalino di coda della regione. I veronesi registrati all’Aire sono 45.183, in maggioranza uomini fra i 35 e i 49 anni. Considerando, però, la graduatoria per numero di iscritti dei singoli Comuni, Verona (intesa come Comune capoluogo) balza in seconda posizione con 12.641 nostri concittadini che vivono in pianta stabile in una nazione straniera. Sono quasi il cinque per cento della popolazione. Se ne va la generazione nata negli anni Ottanta, concepita durante il boom economico. Ma non è una fuga di cervelli. Lo spiega bene il sociologo Riccardo Giumelli, docente all’università di Verona e membro del comitato scientifico della fondazione Migrantes. «Non è più corretto affermare che partono solo i migliori, oppure gli intellettuali – dice –. Semmai partono i più intraprendenti e chi nel corso del tempo ha costruito delle competenze specialistiche, ma non per forza nell’ambito della ricerca universitaria. Sono spinti dall’idea di mettersi alla prova in un contesto internazionale, di sfruttare le possibilità che ci sono nel mondo. Almeno in parte si tratta di persone che partirebbero ugualmente anche se in patria avessero un lavoro sicuro. E probabilmente più di qualcuno lo aveva pure». Infatti, stando alle statistiche, buona parte degli espatriati sono nuclei familiari o giovani coppie con figli piccoli e piccolissimi al seguito. Non è un caso se nell’indagine di Migrantes proprio i minori rappresentano quasi il 19 per cento dei veronesi iscritti all’anagrafe estera nel corso del 2018, mentre poco meno di quattro su dieci risultano iscritti per nascita. «Se un tempo – evidenzia Giumelli – si trasferiva per primo il pater familias per cercare lavoro, oggi succede che il lavoro lo si ha prima di partire e quando è ora si sposta, quasi in contemporanea, tutto il nucleo familiare. L’esperienza all’estero diventa un’esperienza di famiglia, anche per far imparare ai figli una seconda lingua». Ma dove vanno i nostri concittadini? I primi tre Paesi di emigrazione sono il Brasile, l’Argentina e la Svizzera. Anche se «non è detto che dietro queste mete ci sia un fenomeno di mobilità», cioè che si tratti di giovani laureati che fanno fagotto per trasferirsi in Sudamerica. «È molto più probabile – sottolinea Giumelli – che si tratti di acquisizione di cittadinanza, anche in virtù delle elezioni che si sono tenute a marzo dello scorso anno». Al quarto posto c’è il Regno Unito, che torna protagonista a livello generale. Con oltre 20mila iscrizioni all’Aire (il 16 per cento del totale) risulta la prima meta prescelta dagli italiani nell’ultimo anno. Rispetto al 2017, quando il primo Paese di destinazione è stato la Germania, il balzo in avanti è dell’11,1 per cento, «ma è molto probabile – spiega Giumelli – che un discreto numero di queste iscrizioni siano regolarizzazioni di presenze già in essere da tempo e sollecitate dalla Brexit, che ha provocato molta confusione nei residenti stranieri in Gran Bretagna e a Londra in particolare». Laura Perina

Solo un giovane su 5 pensa di rimanere in Italia...

Dove vedono il loro futuro i giovani veronesi? Solo uno su cinque immagina di rimanere in Italia dopo il diploma o la laurea. Indecisi a parte, che sono poco meno di due su dieci, il resto si proietta come minimo in Europa, ma nella maggior parte dei casi ovunque nel mondo. Dati messi in luce dall’analisi Immaginiamo il futuro condotta su un campione di 110 studenti che frequentano dieci scuole superiori di Verona e provincia. Il sociologo Riccardo Giumelli l’ha elaborata per conto della Presidenza del Consiglio comunale di Verona, che a sua volta l’ha curata in collaborazione con l’Ufficio scolastico provinciale e la dott.ssa Margherita Forestan, coordinatrice per la nostra città del progetto europeo “Democrazia locale”. A dicembre l’indagine rappresenterà l’Italia tra i finalisti del premio Innovation in Politics Awards 2019 di Berlino, intanto i risultati sono stati presentati nel corso di un convegno al palazzo della Gran Guardia a cui hanno partecipato le scuole coinvolte: l’Ipseoa Berti del Chievo, l’Ipsar Carnacina di Bardolino, il liceo Copernico e l’Ites Pasoli di Verona, l’istituto Da Vinci di Cerea, il liceo Medi di Villafranca, l’educandato Agli Angeli, l’istituto Lavinia Mondin e il liceo Montanari di Verona, l’Isiss Dal Cero di San Bonifacio. «La maggior parte dei ragazzi ha definito il proprio futuro “incerto”, ma ha la consapevolezza che è in atto una trasformazione socioculturale importante, un passaggio d’epoca dove il futuro è tutto da inventare», racconta Giumelli. Alcune certezze rimangono, per esempio «i mestieri più consigliati dai genitori sono ancora il medico e l’avvocato e i ragazzi ne prendono atto, perché un lavoro sicuro fa gola, ma la prospettiva è quella di sfruttare al meglio il mondo di possibilità che hanno di fronte». La passione per loro conta, però spesso non fa rima con guadagno. Tant’è che l’assioma non è più positivo versus negativo, ma incertezza versus opportunità. Tra le tante insicurezze sul futuro, una certezza però ce l’hanno: non finire a lavorare nei fast food. «È una sorta di angoscia diffusa – spiega il sociologo –. La consapevolezza che si sta diffondendo è che molte professioni vincenti debbano essere ancora inventate e che la scuola faccia fatica a stare al passo con i cambiamenti del mercato del lavoro». Chi frequenta l’alberghiero, esemplifica Giumelli, «ha la speranza di rimanere nel settore in cui ha studiato, ma magari diventando imprenditore di se stesso, imparando le regole della comunicazione e l’uso dei social network per fare business. L’idea di fare esperienze all’estero è legata all’apprendimento di una seconda lingua, necessaria quanto il saper organizzare il proprio personale». [L. Per.]

«A Londra più opportunità E con i nostri figli...»
Famiglia veronese emigrata in massa
Non più solamente chi è senza lavoro e nemmeno gli studenti o i neo-laureati. Il report della fondazione Migrantes parla chiaro: spesso chi fa fagotto ha davanti a sé un futuro già spianato in patria, solo che è “affamato” di esperienze e sceglie come destinazione Paesi percepiti come più lungimiranti e meritocratici: il Regno Unito nel 16 per cento dei casi. E diversamente da ciò che accadeva in passato, oggi è una questione di famiglia. È il caso dei Padovani, veronesi a dispetto del cognome. Gianandrea e Silvia, 37 e 35 anni, ingegnere lui e medico lei, vivono e lavorano a Londra da oltre due anni. Con loro ci sono Vittoria ed Ettore, di 7 e 3 anni, mentre un’altra piccolina è in arrivo. Fra la questione economica e quella legata alle opportunità, a motivare il loro trasferimento è stata «sicuramente la seconda – spiegano –. I principali motivi sono stati professionali in ottica di entrare in àmbiti di lavoro e vivere esperienze che al momento in Italia non esistono, o sono limitate».
– Come mai il Regno Unito e Londra in particolare?
«Avevamo considerato altre città: Amsterdam, Parigi e Dublino. Ma per noi non sono mai state delle vere alternative. L’esposizione a livello globale, non semplicemente nazionale o europeo, presente a Londra oggigiorno è stata la chiave per prendere la decisione. Un ruolo lo hanno giocato anche la natura internazionale della città, che facilita l’integrazione, e la lingua. Altre lingue avrebbero creato uno scalino forse troppo alto per il progetto e l’avrebbe fatto naufragare».
– È stato difficile trapiantare tutta la famiglia, in particolare avendo figli piccoli?
«Non difficile, ma comunque ha richiesto particolari attenzioni rispetto al muoversi da soli: per esempio dover capire i diversi sistemi in cui ci si andrà a integrare. In primis quello sociale, i meccanismi e i servizi delle comunità locali che non sempre è automatico comprendere dalle informazioni su internet. L’esperienza diretta e la sperimentazione sono fondamentali, l’unico vero modo per scoprire cosa significa vivere all’estero con la famiglia».
– La Brexit vi spaventa?
«Non particolarmente. Noi siamo venuti a Londra già consapevoli della Brexit, quindi non abbiamo vissuto la decisione come un tradimento nei confronti degli europei, cosa invece molto sentita da chi viveva nel Regno Unito da anni prima del referendum. A livello sociale potrebbe inasprire qualche tensione razziale, ma Londra è citta aperta con una storia a sé stante. Certo, il processo avrà impatti in termini di costi della vita e potenzialmente introdurrà qualche burocrazia in più... Ma finché la pasta passa il confine siamo salvi, anche se sarà un po’ più costosa!
– Se decideste di tornare, per quale o quali motivi sarebbe?
«Ci dovrebbe essere un buon motivo per non restare qui e un altro buon motivo per non andare da qualche altra parte». [L. Per.]

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