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«Confusi e abbandonati: i giovani vanno seguiti»

Parla il cappellano del carcere minorile "Cesare Beccaria" di Milano dopo l'assurdo assassinio di Willy Monteiro Duarte 

Parole chiave: Don Claudio Burgio (1), Caso Willy (1), Attualità (25), Giovani (99)
«Confusi e abbandonati: i giovani vanno seguiti»

Sul delitto di Colleferro (Roma) si è detto di tutto e di più. Willy Monteiro Duarte è stato ucciso a calci e pugni da alcuni giovani poco più grandi di lui, mentre provava a sedare una lite in cui era coinvolto un amico. 

La morte ingiusta di un ventunenne fa arrabbiare: non potrebbe essere diversamente. Per tentare di capirla si è discusso molto di gioventù violenta, di assenza di valori, della rabbia serpeggiante nella società; ci si è concentrati sui tatuaggi e sulle arti marziali praticate dagli accusati, come a esorcizzare un male che fatichiamo a comprendere. 

Ma se non si va oltre la rabbia, se non si prova ad allargare lo sguardo, finiremo per indignarci oggi dimenticandoci domani quello che è successo; fino a che un altro episodio non scatenerà la nostra parte emotiva. Ce lo ricorda don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile “Cesare Beccaria” di Milano e fondatore dell’associazione Kayrós, che da vent’anni gestisce una comunità di accoglienza per minori in difficoltà.  

– Don Claudio, ci aiuti a decifrare quello che è successo. Innanzitutto, perché? 

«Aspettiamo l’esito dell’indagine per entrare nel dettaglio. Però si può dare una lettura allargata della situazione, partendo da un fatto: oggi adolescenti e giovani sono sempre più società tra pari, in cui il modo di concepire la vita e la cittadinanza è quello di regolarsi da soli. Tendono a fare a meno delle istituzioni, estromettendo gli adulti».

– Come mai? 

«Gli adulti hanno perso credibilità. Spesso dietro alle storie difficili dei ragazzi ci sono ingiustizie o violenze subite, povertà (non solo economiche) che li ha visti protagonisti fin dalla nascita, disuguaglianze e ansia da riscatto sociale. Qualche giorno fa un ragazzo della mia comunità mi diceva che ha trovato uno sfogo nelle canzoni rap, farcite di insulti agli adulti, allo Stato e alle istituzioni che non hanno avuto risposte per lui e per il suo quartiere».

– A proposito di quartieri: ha ancora senso distinguere tra centro e periferie?

«Sono categorie superate. Qui in Lombardia è proprio nella Brianza cattolica che queste controversie sono più evidenti, in cui si trovano le disparità, il branco. Non ci sono più zone protette: è un fenomeno trasversale. Il problema dei ragazzi oggi è essere visti a tutti i costi: la visibilità, accentuata dai social. Il sentimento più in voga è la paura della vergogna, di essere bullizzati, che talvolta li porta a difendersi attaccando. Non accettano la fragilità. E invece bisogna educare alla fragilità, a vivere positivamente i propri limiti».

– Questo ci riporta al mondo degli adulti…

«I ragazzi del “Beccaria” mi ripetono spesso che l’adulto manca. Perché non è davvero adulto, è un fac-simile, una brutta copia del giovane: ci sono troppi genitori eternamente giovani, che non sanno provocare una domanda diversa nei figli, non si differenziano da loro. “Non me ne faccio niente di un altro come me”, mi confidano. E poi c’è l’adulto che rimane completamente avulso dalla loro realtà, non li ascolta. Prendiamo il fenomeno in continua evoluzione della musica trap: pochi grandi sono disposti a conoscere di che si tratta, andando oltre i pregiudizi. Ma coi giovani si riesce a entrare in contatto davvero solo se ci si immerge nei loro vissuti e si prova a comprendere cosa sentono. Se si limita a recitare il copione della buona educazione, l’adulto è insignificante».

– Essere genitori ed educatori non è un’impresa facile, di questi tempi.

«No, infatti. Ogni giorno incontro molti genitori disperati, anche bravi. L’attuale cultura giovanile sottrae i figli alle loro regole; ma per quanto il genitore non la condivida deve provare a sintonizzarsi. Senza eccedere nell’ansia protettiva, che rischia di generare depressione o reazioni di ribellione. Anche la Chiesa deve provare a entrare nei vissuti dei ragazzi: dar voce ai loro dubbi e all’apparente agnosticismo, ad esempio, permette di instaurare un dialogo che attraversa i due mondi. Spesso però il nostro è un monologo e non li aiuta a crescere». 

– Lei ha seguito decine di cosiddetti “ragazzi cattivi”, ma sostiene che non esistano, come recita il titolo di un suo libro. Chiunque può essere recuperato? 

«Ho visto coi miei occhi ragazzi fare cambiamenti reali in carcere, anche se ci vogliono anni; alcuni maturano solo quando si trovano davanti all’esito nefasto delle loro condotte. Ma sì: tutti sono educabili. Certo, di fronte alla vicenda di Willy c’è molta rabbia e paura, però non dobbiamo lasciare che sia la pancia a muovere le nostre azioni. Piangiamo fine di questo ragazzo che ha dato un messaggio bello prestando aiuto a un amico, tuttavia non dimentichiamo che ogni persona è educabile sempre, a qualunque età». 

– Eppure traboccano l’odio e le richieste di “fare davvero giustizia”, come se i tribunali non esistessero… 

«La giustizia retributiva non ha mai fatto cambiare nessuno. Le persone cambiano non per l’inasprimento delle pene, ma se sono attratte da un progetto di vita più bello e intelligente, in grado di far riemergere la bellezza della vita sociale e culturale senza logiche di predominio. Capisco che è difficile, però la violenza non può che generare altra violenza. Per come la interpreta la Costituzione, la giustizia deve andare verso la riconciliazione. C’è una brutalità del male che sta dilagando perché non ci sono cammini riconciliativi: i ragazzi non sanno cos’è il perdono. Esistono timidissimi progetti di giustizia riparativa, incapaci di far fronte a una cultura improntata alla prevaricazione e alla vendetta. Andrebbero promossi maggiormente nella scuola. Ma anche lì, se qualcuno si comporta male viene sospeso, anziché aiutato a riflettere su ciò che ha fatto e a prendere coscienza della sua responsabilità». 

 

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