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Urge terapia intensiva per i malanni della famiglia

Intervista alla neo-ministra Elena Bonetti, «Con il Family act la svolta:ora le famiglie al centro»

Parole chiave: Bonetti (1), Famiglia (55), Welfare (13), Politica (43), Family act (1)
Foto: Serezniy@123RF.com

Crisi economica, denatalità, scarso appoggio dalle istituzioni: sono tanti i mali che colpiscono l’istituto familiare in Italia, mai così in crisi. La ministra ad hoc Elena Bonetti promette un Family act, pochi proclami e zero distorsioni ideologiche. Ma le lasceranno realizzare un programma comunque interessante? Nel frattempo gli studi confermano la sofferenza che ha attraversato in questi anni il portafoglio familiare e, nello specifico dei farmaci, l’aumento del numero di chi non può permettersi né la prevenzione né le cure. Serve insomma una terapia forte e articolata, e non le ennesime cure palliative fatte di qualche bonus e qualche sgravio.
Il nostro approfondimento su Verona Fedele dell'8 dicembre 2019 che trovate in edicola e in parrocchia

foto Serezniy@123RF.com

«Con il Family act la svolta: ora le famiglie al centro»
I propositi della neo-ministra Elena Bonetti, welfare compreso
Profilo basso, pochi proclami e zero discussioni ideologiche. Il modus operandi dell’attuale ministra per le Pari opportunità e la Famiglia è quanto di più lontano si possa immaginare rispetto a chi l’ha preceduta. Mantovana di 45 anni, sposata e madre di due figli, Elena Bonetti è docente di analisi matematica all’Università degli Studi di Milano. Recentemente a Verona – ospite di un convegno all’interno dello spazio di coworking Officina 18 – in quella che è stata la prima uscita pubblica in città del partito renziano Italia Viva (di cui è parte), la ministra ha illustrato il suo piano di battaglia per riempire le culle sempre più vuote e rendere le famiglie italiane «più protagoniste, più eque e più ricche»: il “Family act”. Sulla carta è un progetto ambizioso, articolato e strutturale; forse una delle iniziative più interessanti di questo Governo claudicante (eufemismo).
Dalle parole della Bonetti emerge chiaro il suo bagaglio culturale, quello di insegnante e dirigente Agesci (l’associazione delle guide e degli scout cattolici), realtà in cui ha conosciuto anche il marito che oggi lavora per la Caritas mantovana. E parlare di «ferite», di «accogliere» e «custodire» relazioni, di «comunità» e «bene sociale» tradisce una certa vicinanza – più o meno voluta, più o meno cosciente – alla Dottrina sociale della Chiesa.
Famiglia e società
Non deve stupire, quindi, la definizione che la ministra dà di famiglia come «prima cellula della realtà sociale». «È una dimensione antropologica relazionale, una visione secondo cui ciascuno non è semplicemente un individuo, ma una persona chiamata alla relazione con gli altri. E solo in questa relazione la persona viene accolta e custodita, ma allo stesso tempo assume una responsabilità di cura rispetto all’altro. Questo tra uomini e donne, tra generazioni diverse e tra famiglie all’interno della stessa società. Perché la famiglia non può più essere vista come nucleo unitario, una monade chiusa in se stessa, luogo privato di unità. Troppo spesso abbiamo utilizzato questa concezione di famiglia e quindi troppo spesso abbiamo trattato le politiche familiari come politiche assistenziali».
Family act
Ma cos’è nel concreto il Family act di cui si parla? Non un semplice «pacchetto di misure a sostegno delle famiglie», ma una «proposta di investimento sulle famiglie, chiamate a mettere in gioco la propria responsabilità sociale. Diventa un processo da attivare». Il primo obiettivo è dunque quello di riportarle ad assumere un ruolo sociale ed essere «protagoniste» dell’educazione dei figli, supportate dallo Stato. «Nel quadro della legge di bilancio – spiega Bonetti – per pagare le rette agli asili nido arriviamo ad investire fino a 3mila euro annui per famiglie con Isee sotto i 25mila euro, 2.500 per Isee inferiori a 40mila. E i dati ci dicono che praticamente il totale dei minori, il 93%, vive in famiglie con Isee inferiori ai 40mila. Dopodiché dobbiamo attivare azioni di promozione e quindi un fondo per la costruzione di nuovi asili nido; ma anche un investimento da 30 milioni da gennaio attraverso il bando “Educhiamo”, per attivare sui territori progetti di carattere educativo, che vedano la compartecipazione tra enti locali, Terzo settore e associazioni, proprio per condividere come società la responsabilità educativa».
Lavoro e maternità
Altro obiettivo del Family act è l’equità all’interno della famiglia, in cui le responsabilità siano condivise tra i coniugi. Così nel mondo del lavoro, che «se è il luogo in cui ciascuno di noi esprime la propria cittadinanza, deve essere capace di definirsi in una maniera integrata rispetto al mondo delle persone», per questo – prosegue Bonetti – la maternità non può più essere considerata un vulnus nella carriera di una donna. «Affiancheremo percorsi di formazione, partendo dall’ambito digitale, da offrire durante il congedo di maternità, in modo da accompagnare la scelta libera e necessaria di sospendere l’attività lavorativa o di ridurla nei tempi e nei modi. Perché una donna che vive l’esperienza della maternità possa farne un’acquisizione di ulteriore competenza professionale, che va rimessa in circolo». Per i neo-papà, invece, il congedo obbligatorio viene aumentato da 5 a 7 giorni lavorativi. «Attualmente è aperto anche un bando da 74 milioni di euro, che abbiamo esteso a tutte le piccole e medie imprese, per politiche di conciliazione di welfare familiare. Alla chiusura faremo un punto e istituiremo un tavolo per costruire un piano nazionale di politiche di parità di genere, che affronterà in modo forte il tema della conciliazione vita-lavoro in particolare per il mondo femminile».
Assegno universale
La misura più audace è però l’assegno universale, per tutti i nuovi nati e adottati nel 2020, che dovrebbe poi estendersi a tutti i figli a carico nel 2021. La scelta di assegnare a tutti un bonus (da 80 a 160 euro mensili a seconda dell’Isee) rappresenta – a detta della ministra – una questione di principio: «Se è vero che ogni uomo e ogni donna è libero di scegliere se aprirsi alla genitorialità, nel momento in cui nasce o arriva un nuovo cittadino, a quel cittadino dobbiamo guardare con una corresponsabilità, perché è un bene per tutti, oggi e per il futuro».
Disabilità e...
Nel campo della disabilità, l’obiettivo è di non lasciare sole le famiglie con persone diversamente abili a carico, ma fare in modo di creare percorsi sociali di valorizzazione. «Ci sono fragilità, fatiche, di cui tutti dobbiamo farci carico. Ma, oltre a sanare le ferite, chiamiamo ognuno a comprendere che proprio all’interno della propria ferita – per cui noi diamo sostegno – ha un valore immenso da mettere in gioco. E io su questo valore voglio investire». Per le famiglie, la necessità è di condividere le fatiche quotidiane: «È importante attivare nei territori quelle forme di comunità che straordinariamente nel nostro Paese sono presenti. Noi dobbiamo essere in grado di intercettarle, valorizzarle, promuoverle e metterle a sistema».
Adozioni internazionali
A fare da contraltare a tutte queste iniziative, i tagli di 2 milioni al Fondo affidi. «Quelli effettuati sono tagli di carattere lineare, che in realtà sono andati a ottimizzare delle spese che si potevano ridurre anche in virtù del fatto che le adozioni sono diminuite», spiega la ministra. «Ovvio che se questi tagli non ci fossero stati, sarebbe stato meglio; ma non andranno ad inficiare sui servizi che potremo offrire alle famiglie adottive. Tant’è che abbiamo già in essere non solo un decreto che riapre i termini per la richiesta di rimborso con i fondi destinati negli anni precedenti, ma già adesso stiamo ragionando su un aumento significativo e consistente dei rimborsi che opereremo in futuro».
In definitiva, se tutto andrà in porto, se cioè alle parole seguiranno i fatti, sarà un bel cambio di passo in tema di politiche familiari. Tutto però dipenderà non solo dalla volontà politica di riversare risorse economiche sulle famiglie, ma anche dalla tenuta del Governo, almeno fino al 2021, quando dovrebbe partire l’assegno universale per i figli a carico. Altrimenti assisteremo all’ennesimo giro di valzer in Parlamento e nei ministeri e le famiglie italiane rimarranno ad attendere risposte. Ancora.
Andrea Accordini

Un po’ più formiche per contrastare il grande freddo della crisi
Analisi sui consumi dei nuclei familiari italiani e veronesi dal 2008 a oggi
Pochi sanno che all’interno del Dipartimento di Scienze umane dell’Università di Verona opera l’Osservatorio sui consumi delle famiglie (Oscf), che da dieci anni pubblica un Rapporto sugli orientamenti di consumo e lo stile di vita delle famiglie italiane e veronesi. Si tratta di indagini di tipo qualitativo che si affiancano e completano quelle quantitative prodotte dall’Istituto centrale di statistica.
In occasione di questo significativo traguardo si è tenuto lo scorso fine settimana un convegno che ha fatto il punto su “dieci anni di ricerca sui consumi in Italia”. Gli studiosi della nostra Università partono dal postulato che il consumo non sia soltanto un atto economico individuale, ma anche una relazione che si colloca in un preciso contesto sociale e culturale. Ne consegue – spiega il prof. Luigi Tronca, anima dell’Osservatorio – che le specifiche scelte sono il derivato del “capitale sociale” disponibile, dell’insieme delle reti di appartenenza e del livello dei legami parentali esistenti.
Il fattore economico (reddito e ricchezza) rimane naturalmente l’elemento decisivo e condizionante delle scelte di consumo. La crisi economica iniziata nel 2008, che ha avuto il suo massimo nel 2011 e si è conclusa, forse non del tutto, lo scorso anno, ha segnato un profondo cambiamento negli stili di vita delle famiglie italiane che si ritrovano mediamente più povere e vivono situazioni di incertezza e di precarietà senza precedenti.
La situazione delle famiglie italiane
Il quadro nazionale l’ha ben illustrato Andrea Cutillo, dell’Istat. Ci sono 1,8 milioni di famiglie (7% del totale rispetto al solo 3,6% del 2005) con 5 milioni di persone in condizioni di povertà assoluta. La spesa media mensile per famiglia destinata ai consumi, pari a 2.571 euro, ha subìto una riduzione che per i prodotti alimentari è stata del 18%.
I dati citati sono delle medie. Questo significa che le situazioni sono assai diverse nelle singole realtà territoriali, professionali e sociali. Va anche rilevato che la crisi ha colpito non soltanto i più poveri (che come abbiamo visto sono aumentati) ma ha anche eroso, spesso in maniera pesante, le capacità di risparmio e di consumo di quella ampia classe media che da sempre è stata fattore di stabilità e di sviluppo del Paese.
Se poi si considera il reddito disponibile per consumi non tanto in termini nominali (la quantità di moneta), ma reali – vale a dire al netto dell’inflazione e dunque di quella che gli economisti chiamano l’illusione monetaria – la situazione appare ancor più allarmante: negli ultimi 10 anni la diminuzione è stata del 19%. Risultano colpiti in particolare i consumi legati al tempo libero, all’abbigliamento, alle calzature e per il 16% delle famiglie persino (anche se si considera voce incomprimibile) le spese sanitarie, con pesanti ricadute non soltanto sulla qualità di vita delle singole persone ma sull’intero sistema sanitario-assistenziale del Paese.
L’unica voce che segna un trend crescente nel tempo è quella relativa alle comunicazioni (telefonini, tablet, personal computer).
Trasformazione da cicale a formiche
L’indagine dell’Osservatorio sui consumi delle famiglie veronesi aggiunge a questo quadro statistico numerosi e interessanti elementi qualitativi-comportamentali.
Va detto anzitutto che il Veneto e in particolare la provincia di Verona hanno risentito in misura nettamente inferiore degli effetti della crisi. Da noi l’economia ha tenuto, anzi da quattro anni ha ripreso a crescere; il tasso di disoccupazione è di due terzi inferiore a quello nazionale; il sistema produttivo grazie all’export macina risultati reddituali significativi; la povertà assoluta incide su un numero minore di famiglie (5,8% rispetto al 7% nazionale) e tale percentuale si è ridotta nel tempo; l’indice di sofferenza economica (che sintetizza molteplici variabili e dà una visione d’insieme del fenomeno) è nella nostra provincia di un terzo rispetto al dato nazionale.
Insomma le famiglie veronesi, o meglio la gran parte delle stesse, sembra essere – come recita il titolo del Rapporto – “oltre la crisi economica” che, seppur attenuata nei suoi effetti, ha peraltro imposto loro di rivedere le abitudini di spesa, modificare lo stile di vita, riorganizzare la quotidianità e persino cambiare il modo di pensare.
Il prof. Domenico Secondulfo in un capitolo centrale del Rapporto ben descrive questo ribaltamento di paradigma che vede aumentare significativamente il numero di quelli che definisce “consumatori-formiche” e “consumatori-accorti”.
Per questi la riduzione dei consumi si accompagna a un rifiuto dello spreco; a un ritorno all’economia dell’usato e del riutilizzo; alla scelta di prodotti che coniughino il prezzo alla qualità; alla rinuncia ai marchi più costosi; alla ricerca di promozioni e sconti; all’associarsi ai gruppi di acquisto che godono di un maggior potere contrattuale; all’appoggiarsi a reti sociali e parentali.
Insomma siamo di fronte a un positivo recupero dell’etica del consumo e delle relazioni interpersonali dove, finita la lunga stagione dell’ubriacatura consumistica, le cicale tornano ad essere formiche in cerca di nuova normalità.
Questa ritrovata saggezza – dovuta alle dure risposte dell’economia – è sicuramente un passo in avanti per l’adozione di uno stile di consumo etico, solidale e condiviso. Il fatto che le famiglie veronesi siano in gran parte “oltre la crisi economica” non deve naturalmente far venire meno il dovere morale di prestare attenzione e concreto sostegno ai tanti nuclei familiari che nella nostra comunità continuano a vivere in stato di povertà.
Renzo Cocco

La povertà crescente taglia la spesa per cure e medicine
Un indicatore dello stato di difficoltà? Niente dentista...
Nel corso di quest’anno 473mila persone povere non hanno potuto acquistare i farmaci di cui avevano bisogno per ragioni economiche. La richiesta di medicinali da parte degli enti assistenziali è cresciuta in 7 anni (2013-2019) del 28%. Nel 2019 si è raggiunto il picco di richieste, pari a oltre un milione di confezioni di medicinali (+4,8% rispetto al 2018). Servono soprattutto farmaci per il sistema nervoso (18,6%), per il tratto alimentare e metabolico (15,2%), per l’apparato muscolo-scheletrico (14,5%) e per l’apparato respiratorio (10,4%). Servono, inoltre, presidi medici e integratori alimentari.
Le difficoltà non riguardano solo le persone indigenti: 12.634.000 persone, almeno una volta nel corso dell’anno, hanno limitato – per ragioni economiche – la spesa per visite mediche e accertamenti periodici di controllo preventivo (dentista, mammografia, pap-test ecc.). È quanto è emerso dal 7° Rapporto “Donare per curare: povertà sanitaria e donazione farmaci”, promosso dalla Fondazione Banco Farmaceutico onlus e BFResearch e realizzato dall’Osservatorio sulla povertà sanitaria (organo di ricerca di Banco Farmaceutico).
Ogni persona spende, in media, 816 euro l’anno per curarsi, mentre i poveri solo 128; tuttavia le famiglie non povere spendono per i farmaci non coperti dal Servizio sanitario nazionale il 42% del proprio budget sanitario, mentre quelle povere il 62,5%. Questo perché possono investire meno in prevenzione.
All’interno di questo quadro problematico, le famiglie povere con figli minorenni sperimentano paradossalmente (poiché sarebbe logico attendersi un supplemento di facilitazioni da parte delle istituzioni finalizzate alla tutela della salute) difficoltà aggiuntive: nel 40,6% dei casi (contro il 37,2% delle famiglie povere senza figli) per ragioni economiche hanno limitato la spesa per visite mediche e accertamenti periodici di controllo preventivo. Le difficoltà sono superiori anche per le famiglie non povere con figli (ha limitato la spesa o rinunciato del tutto il 20,7% di esse) rispetto alle famiglie non povere senza figli (18,3%). Considerando il totale delle famiglie, ha limitato la spesa o rinunciato del tutto alle cure il 22,9% di quelle con figli, contro il 19,2% di quelle senza.
Particolarmente significativa è la spesa delle famiglie povere per il dentista e per i servizi odontoiatrici: solo 2,19 euro al mese, contro 31,16 euro del resto della popolazione. Non è un caso che la cattiva condizione del cavo orale sia diventata un indicatore dello stato di povertà. Le famiglie povere, inoltre, possono spendere solamente 0,79 euro al mese per l’acquisto di articoli sanitari (contro 4,42 euro del resto della popolazione), 1,30 euro per le attrezzature terapeutiche (contro 12,32), 4,61 euro per i servizi medico-ospedalieri (contro 19,10) e 1,31 euro per i servizi paramedici (contro 9,35 euro).
Contenere la spesa sanitaria, per le famiglie indigenti, è necessario anche a fronte del fatto che la quota totalmente a carico dei cittadini (cioè non coperta dal Ssn) è passata, tra il 2016 e il 2018 dal 37,3% al 40,3%.
«A 30 anni dalla Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia (che riconosce al minore il diritto “di godere del miglior stato di salute possibile”), c’è ancora tanto lavoro da fare: in Italia, le famiglie con minori (sia quelle povere, sia quelle non povere) sono penalizzate rispetto all’accesso alle cure e, per ragioni economiche, sono costrette a perseguire strategie di rinuncia o di rinvio delle cure in misura superiore alle altre. Speriamo che il 7° Rapporto sulla Povertà sanitaria possa contribuire alla presa di coscienza, anzitutto da parte delle istituzioni e dell’opinione pubblica, di tale preoccupante situazione e del fatto che senza migliaia di enti e associazioni che, in tutta Italia, offrono assistenza socio-sanitaria gratuita agli indigenti, il quadro sarebbe ancora più drammatico», ha dichiarato Sergio Daniotti, presidente della Fondazione Banco Farmaceutico onlus.

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