«Se nulla sarà più come prima la vera sfida è cambiare noi»
Il pedagogista Dotti: «Non è detto che succederà, più facile è che tutto resti come prima»
«Mai come in questo momento è sfidata la nostra libertà. La mia, la tua, quella di tutti. È il momento di una presa di consapevolezza personale e comunitaria. Perché, parliamoci chiaro, tutti dicono che non sarà più come prima, ma non è per nulla scontato che cambieremo davvero». Ad affermarlo è il prof. Johnny Dotti. Spesso invitato in Veneto negli ultimi anni, Dotti è una persona poliedrica, a cui piace guardare al futuro: pedagogista, imprenditore sociale, esperto di welfare, docente a contratto all’Università Cattolica. In queste settimane è testimone diretto dell’evoluzione del coronavirus da uno degli epicentri: Bergamo. «Mia moglie è medico di base, io stesso sono stato male, pur senza fare il tampone. Ho finito da poco la mia quarantena, che ho potuto affrontare meglio, vivendo in una comunità di famiglie». Nel colloquio con lui, inevitabilmente, si mescolano riflessioni, ipotesi sulla ripartenza del Paese, ma anche il resoconto di quello che ha vissuto e sta vivendo il suo territorio: «Basta aprire l’Eco di Bergamo, sulla pagina dei necrologi, per capire che i morti sono almeno il triplo rispetto a quello che viene detto», racconta.
– Dunque, professore, lei dice che non è scontato che cambieremo davvero. Eppure, tutti sostengono il contrario...
«Non è per nulla scontato. In questi ultimi vent’anni abbiamo già preso delle belle batoste: le torri gemelle nel 2001, la grande crisi nel 2008, gli attentati terroristici in Europa... Si è detto e scritto di tutto, ma non appena si poteva, si è tornati a fare la vita di prima. Cambiare non è per niente facile. Basta guardare all’Europa e al dibattito ridicolo al quale stiamo assistendo».
– E per cambiare davvero cosa si deve fare?
«Noi avremo un tempo in cui si rischierà una nuova forte statalizzazione in economia. È comprensibile, nei momenti di precarietà si cercano forme di tutela, ma questa è un’illusione. E avremo un tempo con una forte spinta al controllo della tecnica rispetto allo Stato. Ma queste sono due vecchie risposte, dei secoli passati. Con queste due cose non ce la faremo. Serve, invece, un’assunzione di responsabilità personale e collettiva. Non c’è società senza comunità, non si sta in piedi senza forme di prossimità, senza la creatività delle persone. Si tratta di una dimensione che è, alla fine di tutto, spirituale. Guardi che anche in questo disastro avremmo avuto tanti morti in più se non ci fosse stata da parte di tante persone l’iniziativa, la creatività, il sentimento di prossimità».
– A partire, dunque, da questo senso di comunità, come potremo cambiare?
«Iniziamo dalle forme dell’abitare. In queste settimane mi ha aiutato tantissimo vivere in una comunità di famiglie. Molti hanno toccato con mano cosa significa vivere in appartamenti piccoli. Penso che questa esperienza ci possa portare a nuove forme dell’abitare, del vivere il vicinato».
– E la politica dove si dirigerà?
«Penso che la priorità debba essere quella della cura dei beni comuni, che non devono essere per forza beni pubblici: l’acqua, l’ambiente, ma penso a quei due grandi beni comuni che sono la scuola e la sanità. Guardiamo alla scuola: tornerà a essere identificata con un edificio chiuso in cui accadono delle cose o l’inevitabile apertura di queste settimane porterà a un suo cambiamento vero?»
– Anche l’ambiente è chiamato in causa.
«Mi pare evidente. Il Covid-19 ci dice: “Io ci sono”. La natura va rispettata, non possiamo pensare di fare quello che vogliamo, dobbiamo uscire da questa illusione di potenza».
– Sulla sanità il discorso sarebbe lungo. Da dove ripartire?
«Dovremmo avere capito, soprattutto qui in Lombardia, che la sanità non è solo ospedalizzazione, ma ha senso se è fatta di presidi territoriali. Su questo, per esempio, voi veneti siete stati più bravi, qui in Lombardia abbiamo ospedalizzato tutto il sistema. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, mia moglie ha avuto i dispositivi di protezione solo due settimane fa... È stato un disastro. Anche la sanità, come gli altri beni comuni, l’ambiente, la scuola, i trasporti... devono dare spazio al protagonismo della società civile, al mutualismo familiare, a nuove forme di solidarietà ed economia civile».
– Non pare una ricetta facile...
«Certo, proprio la libertà in questa nuova stagione sarà sotto attacco. Ma dobbiamo avere il coraggio di guardare alla storia di cento anni fa. Ci fu la guerra, poi arrivò l’epidemia di spagnola... Sorsero anche stimoli nuovi, il sindacalismo bianco, le casse rurali. Ma alla fine arrivò il fascismo. Il senso di angoscia rischia di scaricarsi altrove, se non trova forme di responsabilità diffusa. Non voglio fare il corvo, ma è la storia che ce lo insegna. Tra l’altro, stiamo assistendo a un mondo che si chiude. Quella della globalizzazione spinta è una fase che si è conclusa e oggi assistiamo al successo di modelli forti e autoritari. In questo contesto, la stessa Europa rischia di diventare territorio di caccia».
– E come, in definitiva, invertire questa tendenza?
«Non delegando le nostre responsabilità, generando cose buone e cose nuove. Senza essere ignavi, come sono stati in questo frangente i politici della mia regione. Guardando al Papa, l’unico che osa gesti e parole in questa tempesta. Ascoltiamolo!»
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