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Non è più tempo di morire (o almeno di parlarne)

La morte è un tabù, ma è come la notte che valorizza il giorno. Oggi non si accetta più l’idea che ci siano delle cose incontrollabili tra cui la morte, ma nessuno muore sulla terra finché vive nel cuore di chi resta.

Parole chiave: Culto dei morti (1), 1 Novembre (3), Defunti (3), Morte (13), Vita (32)
Staute nel Cimitero monumentale di Verona

Sono i giorni della commemorazione dei nostri defunti. Un momento di preghiera, ma pure di riflessione attorno a una delle parole più difficili da pronunciare: morte. Di per sé è un fatto naturale – si nasce, quindi si muore – però la nostra società tende a rimuoverla, quasi come fosse d’inciampo all’illusione di vivere in un eterno presente. Così la morte finisce per essere cancellata o, peggio, banalizzata. Tolta la religione e i suoi riti pubblici (come il funerale in chiesa), il momento del trapasso è sempre più vissuto come un fatto privato. Ma il dolore della perdita colpisce tutti: sarebbe ora di trovare le parole giuste per dirlo.

Morte, quella parola difficile da pronunciare
Il sociologo: «La società la rimuove, solo la religione resiste»
La comunità cristiana si prepara a commemorare i defunti, il prossimo 2 novembre. Il viavai nei cimiteri si intensificherà, le tombe saranno ornate di crisantemi e per un po’ la frenesia quotidiana lascerà spazio al ricordo dei propri cari e alla preghiera. Un rito antico che invita a riflettere sulla morte – l’unica cosa certa, diceva sant’Agostino – che per i cristiani non rappresenta la fine, ma un passaggio verso la vita eterna. Morte: una parola tabù nella società occidentale contemporanea. Ne discutiamo con Stefano Allievi, sociologo delle religioni all’Università di Padova.
– Professore, la morte è difficile da accettare, ma la nostra società pare averla rimossa.
«Oggi si incontra in forma molto mediatizzata: fumetti, cartoni animati, film violenti, teschi come simboli dei vestiti di marchi della moda. Però la morte vera è rara da incontrare: non si muore più a casa, ma negli ospedali; non si fanno più i cortei funebri o le veglie nell’abitazione del defunto. La religione sembra l’unico riferimento che abbia ancora le parole per dire la morte. Ecco perché molti non praticanti o non credenti scelgono il funerale religioso, come se non avessero un linguaggio per affrontarlo fuori dalla chiesa; l’unica eccezione è data dalle commemorazioni nelle sale del commiato, in cui si ricordano pezzi di vita delle persone proiettando video e foto».  
– Servono dei rituali, insomma.
«Il rito del giorno dei morti è significativo. Eppure la frequentazione dei cimiteri è in flessione, soprattutto da parte dei giovani. C’è una maggior distanza dalla materialità della morte. Da un lato è legata alla crescente mobilità delle persone – spostatesi in altre città, se non addirittura Stati – che indebolisce la consuetudine familiare di visitare i propri defunti. Dall’altro lato è favorita dalla collocazione decentrata dei cimiteri, sempre più in periferia e sempre più dalle fattezze di mura di cemento grigio. Un tempo stavano accanto alla chiesa ed erano luoghi che si attraversavano quotidianamente; ora ci si deve andare apposta. Ma la tendenza generale è quella della smaterializzazione».
– In che senso?
«Viviamo in un mondo virtuale, dove l’importanza degli oggetti fisici viene meno. Si pensi alla macchina: un tempo acquistarla era uno status symbol, oggi invece moltissimi vivono senza, si spostano con mobilità alternative. Così anche il rapporto con la morte sarà inevitabilmente meno territoriale. Già esistono i cimiteri virtuali e altri modi, diversi, di ricordare le persone».     
– La società occidentale culla un’illusione di eternità. La morte è d’inciampo?
«Sicuramente sì. Si vive come se non si dovesse morire mai. Ma la morte è una cosa seria, non si può rinviare. Dà spessore alla vita, come la notte dà significato alla luce del giorno, ed è per questo che l’alba ci sembra bellissima. La vita è seria anche perché finisce: se si vive nell’illusione che sia eterna non si scelgono veramente le cose importanti. Poi c’è un’altra tendenza».
– Quale?
«Sconfiggere la morte grazie all’ingegno dell’umanità. Ci sono investimenti enormi in ricerche tese ad allungare la vita indefinitamente. Dicono che le persone che vivranno 140 anni siano già nate. Una prospettiva che riguarda soltanto i ricchi del pianeta. Gli stessi che investono miliardi di dollari nella criogenizzazione (il congelamento del corpo dopo la morte, ndr). Tentativi di sconfiggere la morte o di ritardarla il più possibile».
– La scienza ha allungato l’aspettativa di vita e ha cambiato il rapporto dell’uomo con la morte.
«Senza dubbio. È una lotta della tecnologia contro la natura. Non si accetta più l’idea che semplicemente, come capita per altri ambiti della nostra esistenza, ci siano delle cose incontrollabili, tra cui la morte. Quella naturale non è più contemplata. C’è gente che fa causa agli ospedali regolarmente. Un paio di mesi fa, in Veneto, una famiglia ha denunciato i medici di un nosocomio perché il genitore di 103 anni era morto “per colpa loro”. Un esempio che dà l’idea di come cerchiamo sempre una causa per i decessi, come se la morte fosse un giallo in cui scoprire il colpevole».
– Nel linguaggio comune, quando si parla di morte si usano termini come “è mancato” o “è scomparso”. Poi però si seguono i funerali in tv, si guardano ore di talk show sugli omicidi più efferati o si cercano sui giornali tutti i dettagli dei morti in incidenti. Perché?
«Siamo esseri contraddittori. Da una parte usiamo un linguaggio ipocrita, allontanando la morte dall’orizzonte del reale, senza nominarla. Dall’altra abbiamo un desiderio di voyeurismo che assume forme diverse: dall’iperrealismo delle scene cruente dei film a quella più delicata dei pensionati che leggono i necrologi o si fermano davanti alle affissioni funebri, un modo per tirare un sospiro di sollievo. Continuiamo a dire “morto dopo lunga malattia”, sapendo benissimo di che si tratta, e poi al tg guardiamo le immagini dei cadaveri in fondo al mare. Umanità e perdita dell’umanità, tutte dentro di noi».
Adriana Vallisari

Per curare il dolore di una perdita occorrono tanti baci: parola di papà
Milan: «La vita non aspetta, bisogna dimostrare di volersi bene»
Chi ci è passato lo sa. Perdere una persona che si ama, in qualsiasi periodo della vita, è come subire una mutilazione. Un pezzo di sé che se ne va: si continua a vivere, sentendosi però sempre incompleti. Il tempo aiuta a lenire il dolore, certo. La fede, per chi ce l’ha, è un’ancòra di consolazione. Chi resta si aggrappa al ricordo e lo tiene vivo giorno dopo giorno.
Non è un cammino facile. «Mi sembra di dover scalare quotidianamente l’Annapurna», sintetizza bene Alessandro Milan, giornalista di Radio24 e scrittore, ma prima ancora papà e marito. Lo scorso fine settimana era Verona a presentare il suo ultimo libro, Due milioni di baci (edizioni DeA Planeta). Uno spaccato della vita di un padre di due figli preadolescenti, Angelica e Mattia, che dal 2016 sta crescendo senza mamma. Francesca Del Rosso è morta a 42 anni per un cancro al seno: una malattia lunga sei anni che lei, Wondy, piccola-grande Wonder Woman, aveva affrontato a testa alta, senza mai perdere il sorriso.
«Mi hanno spiegato che il dolore va attraversato: è come un muro contro cui non ci si può scontrare, perché si uscirebbe con la testa rotta, bisogna invece cercare un varco per oltrepassarlo ogni giorno – racconta –. Mia mamma l’anno scorso ha rischiato di morire: sarebbe stato l’ennesimo lutto nel giro di pochi anni. Allora ho deciso di scrivere questo libro, che parla di rinascita e dell’esigenza di andare avanti, nonostante la fatica».
Rialzarsi, insomma. «Iniziando col prenderci cura delle persone che ci stanno accanto, per non sprecare nessun momento – suggerisce Milan –. Esprimere l’affetto col gesto del bacio, perché dove ci sono i  baci i rapporti sono vivi». A iniziare da quelli che lui dà ai suoi figli: a ciascuno, oltre due milioni a partire dal giorno in cui sono nati, conta fantasiosa dell’amore.
Baci che chiudono una giornata segnata dai litigi e dai bronci, finché non si è fatto pace. Baci non dati o ancora da dare. «I miei amici dicono: “Sei un bravo papà, ti dai da fare”, ma io spesso mi sento fragile e pieno di incapacità – ammette il giornalista –. Per fortuna c’è una preziosa rete di amici che mi sta vicino e si occupa dei miei figli, portandoli a scuola se io non posso o tenendoli mentre vado in giro a fare le presentazioni del libro. Chiedere aiuto quando si ha bisogno è uno dei grandi insegnamenti che mi ha lasciato Francesca». A lei, un anno fa, aveva dedicato il libro Mi vivi dentro. Per mantenerne la memoria, inoltre, è nata l’associazione Wondy sono io. È proprio vero che nessuno muore sulla terra finché vive nel cuore di chi resta. [A. Val.]

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