«Il virus è ancora in circolo, non prendetelo sottogamba»: allerta massima nelle case di riposo
Parla la responsabile dei servizi socio-assistenziali della Fondazione San Giuseppe, struttura "blindata" dal 23 febbraio per tutelare gli anziani ospiti
«Chiudere subito la casa di riposo alle persone esterne, fare uno screening ai lavoratori prima dell’ingresso, indossare i dispositivi di protezione individuale (Dpi), mantenere le distanze di sicurezza anche negli spogliatoi ed evitare assembramenti: non sapevamo ancora cosa fosse il Covid-19, quella “maledetta” domenica 23 febbraio, quando ricevemmo queste direttive dal nostro direttore. Allora ci sembrarono piuttosto surreali, ma fidandoci di lui e dei nostri medici interni le applicammo senza discutere. Poi abbiamo visto tutti cos’è successo, purtroppo».
Sono passate parecchie settimane, ma per Vesna Grubor, infermiera professionale responsabile dei servizi socio-assistenziali del Fondazione Casa di riposo San Giuseppe di San Martino Buon Albergo, il tempo si è fermato quella domenica. «Da allora la nostra vita è cambiata: reggiamo ogni giorno e notte un peso enorme, dato dal desiderio di proteggere i nostri residenti e i colleghi da un nemico invisibile, difficilissimo da arginare. Ci fa andare avanti solo l’amore», spiega.
Grazie alla tempestività dell’isolamento, introdotto due settimane prima dell’estensione della “zona rossa” in tutta Italia (9 marzo), la residenza con i suoi 75 ospiti finora è stata risparmiata. «Aver concluso la fase 1 senza contagi è una grandissima soddisfazione per tutto il gruppo di lavoro, che non si è mai tirato indietro e ha agito con serietà e rigore, ma anche serenità, infondendo gioia e speranza nei residenti, consentendo loro di vivere comunque in un clima familiare, ricco di attività e di amore», aggiunge.
La pressione sugli operatori, però, non si è mai allentata. «Siamo stati formati fin da subito alla gestione dei rischi biologici e la nostra Fondazione ci ha fornito Dpi e procedure chiare, tuttavia la tensione è enorme; stiamo attenti a tutto, sul lavoro e a casa, ci teniamo in continuo contatto e non stacchiamo mai: con la testa siamo sempre in allerta – elenca Vesna, che da 17 anni qui è la caposala –. Sentiamo il forte peso della responsabilità di difendere la vita delle persone più fragili: purtroppo noi non siamo strutture sanitarie e il nostro compito è quello di assistere persone che, se presentano complicazioni, dovrebbero essere subito trasportate negli ospedali, dove in questi mesi si è faticato a reggere il peso dei contagi e a prendere in carico chi presentava sintomi anche non gravissimi».
La fase 2, da molti vissuta come una liberazione, per le case di riposo comporta invece un ulteriore innalzamento del livello di guardia. «Finché erano tutti fermi siamo riusciti a contenere con difficoltà il virus, ma ottenere i medesimi risultati quando le persone ricominciano a muoversi pare una missione estrema – dice –. Di certo noi non molliamo! Ci siamo organizzati con le videochiamate e stiamo valutando come consentire i contatti visivi a distanza in sicurezza con strutture in plexiglass, che monteremo per i futuri colloqui tra ospiti e familiari, quando il governo ci consentirà di riaprire».
C’è poi il nodo delle rilevazioni tempestive. «Apprezziamo lo sforzo che molti dei colleghi che lavorano in Ulss stanno facendo per aiutare le realtà come le nostre, però se il Servizio sanitario nazionale ci facesse i tamponi ogni settimana e ci fornisse test da somministrare prima dell’ingresso in struttura avremmo più armi per la difesa di ospiti e lavoratori…».
«Abbiamo retto bene, adesso speriamo che gli ospedali si svuotino e si possa tornare ad avere un supporto adeguato alle grandi esigenze di cure sanitarie che il virus richiede, togliendo eventuali casi sospetti da contesti come il nostro per inserirli negli ospedali Covid-19 finché non si negativizzano – auspica la responsabile –. Noi siamo una splendida realtà, ma siamo autorizzati, organizzati e costruiti per fare assistenza alla persona non autosufficiente, non per fare sanità: le case di riposo non possono reggere per lungo tempo una situazione di emergenza sanitaria come questa. Per fortuna ci sono i familiari, che ci apprezzano e ci incoraggiano e questo ci fa un enorme piacere».
Un sollievo, visto il clima di diffidenza che si è creato nell’opinione pubblica dopo i focolai nelle case di riposo lombarde e in alcune veronesi. «Siamo persone perbene, professionisti rigorosi che hanno lottato con le unghie e coi denti senza mai lasciare il campo: lo abbiamo fatto per lungo tempo, con dedizione e umiltà: vederci additati ad aguzzini, come se le nostre case fossero tutte uguali a quelle in cui si sono verificati casi di malaffare, è ingiusto».
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