Arriva Santa Lucia!
di LUIGI FERRARI
La preparazione al 13 dicembre, la letterina per i doni, l’accoglienza della santa...
di LUIGI FERRARI
«Éco, adèsso vo in lèto anca mì». Era questa la probabile frase che la probabile frase che una settantina d’anni fa la mamma diceva dopo aver sistemato i “piatti” che avrebbe dovuto portare santa Lucia in tarda notte a cavallo tra il 12 e il 13 dicembre. Eh già: «Dài, buteléti, in lèto presto stasera e dormìr subito; che se pàssa santa Lùssia e la ve càta in pié o con i oci vèrti, la ve pàssa ìa». Meno male che c’era il 13 dicembre: nel corso di un anno era una sera in meno da dover supplicare. Funzionava sempre più mano a mano che si avvicinava il giorno agognato se c’era un fratello uscito da quell’età credulona o un genitore che a sera usciva senza dare nell’occhio e suonava un campanello o una trombetta a guisa della santa che veniva a osservare i loro comportamenti.
Ma cosa stava a monte di questo attimo di vita? Stava che lei sembrava il generale Cadorna attento ai desideri, talvolta inespressi talvolta mal celati, di quei due-tre-quattro figli che la facevano dannare quotidianamente, ma che per una manciata di giorni sembrava avessero bevuto una maxi dose di camomilla per non infastidirla: «Se no’ fè i brài, podì scrìvarghe lètare fin che volì, ma son bona ànca mì de scrìvarghe, a santa Lùssia, ànca se ò fàto solo la tèrsa alìmentare». E i figli?
Loro era da tempo che architettavano, sognavano, agognavano, anche se sapevano che le scarsèle dei genitori... non godevano buona salute. Però qualche giretto nella bottega di giocattoli lo facevano. A volte avevano timore a entrarci e piantavano il naso sul vetro della vetrina mettendo le mani una a destra e l’altra a sinistra degli occhi per vedere bene cosa c’era all’interno. Era già una soddisfazione sentirsi dire dàla botegàra: «Vegnì rénto, che no’ ve màgno mìa!». Quelle parole erano come l’amo per il pescatore; lo sapeva bene come andavano a finire certe cose.
E allora gli occhi spaziavano ripetutamente da destra a sinistra su quelle due/tre tavole lunghe si e no tre metri che facevano da scaffalatura (che dico? da trono!) a tutto quel bendiddio che al mattino del 13 dicembre rimanevano mezze vuote ma che tornavano a riempirsi perché... doveva ancora arrivare Gesù Bambino e la Befana. Poteva ben dirlo, la botegàra: «Fìn chè gh’è vita, gh’è sperànsa».
A metterci del suo ci pensava anche la scuola: c’è da crederci se si dice che nessun insegnante (anche della scuola materna) delle elementari abbia dimenticato di far imparare almeno una delle poesie che giravano nei sussidiari di quei tempi o di far fare “i pensierini” che coinvolgessero la santa dei bambini.
Eppoi, i bambini avevano di che confrontarsi con i coetanei, e quello che non avrebbero mai pensato di “dover” o “poter” desiderare diventava il frutto proibito. E allora si stava lì a fare i calcoli dimenticando (ma sarà poi vero?) che santa Lucia i regali li portava gratuitamente: la Natura, mica è scema. Ma non era mica fuori della realtà neanche... santa Lucia: «Dormì, dormì, che la le sa éla quel che ve meritè!».
Dormire? Una parola. E el borésso dove lo mettiamo? In un letto dove ci stavano in quattro (due alla testa, due ai piedi) era dura a prendere sonno. Quel quadrato di lenzuola riscaldate dalle braci messe nello scaldino infilato néla mònega, era il confessionale dove a bassa voce si scambiavano le ultime impressioni. A occhi chiusi, perché si correva il rischio di venire investiti da una spolverata di cenere e a orecchi sul chi va là, sperando di sentire qualche strano rumore che desse per arrivata quella santa che, nonostante fosse completamente cieca, sapeva dove abitavano e riusciva a mettere in tavola proprio quello che avevano chiesto nella letterina.
La mattina – mentre i genitori se ne stavano a letto sicuri di non dover insistere per dar la sveglia – i bambini in tutta autonomia scendevano in cucina, accendevano la luce e, meravigliati o sconsolati, si trovavano di fronte... ai loro meriti. Ma mai mancava il gioioso grido: «Màma, màma, l’è rivà santa Lùssia! Vègni a védar». Robe dell’altro mondo: una bambola, i parecéti, un trenino di legno, la scatole delle costruzioni, una palla di gomma, una fisarmonica a bocca, un paio di manopole, un paraorecchi di lana, una trottola di latta, una scatola di colori (Giotto, quelli corti, da sei pezzi), una pistola con le bombéte, un fucile con un tappo di sughero legato con lo spago che faceva da pallottola... Ma poi c’era “il piatto” – uguale per tutti – farcito con una mela, un’arancia, due mandarini, una manciata di caramelle, un paio di gianduiotti, qualche noce, sìnque puòti fati in casa (che assomigliavano tanto a quelli fatti dalla mamma), una piccola confezione di mandorlato e, per far vedere che non sempre erano stati bravi, un pezzo di carbone (ma di zucchero).
Ogni bambino, anche se non c’era nessun biglietto che lo stabiliva, sapeva quali erano i suoi regali, e ci andava orgoglioso, e li mostrava compiaciuto agli amici, anche se talvolta avrebbe preferito qualcosa di più “esclusivo”. Probabilmente nel sacco della santa non ce ne stavano altri. Poi, chissà perché, passati due o tre giorni, qualche giocattolo spariva e... se lo ritrovavano l’anno successivo. Come nuovo.
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