Ex Cathedra
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Nei simboli dell’addio l’eco della nostra vita

Nella edizione einaudiana del 1971 della Antologia di Spoon River, diventata ormai un classico, sulla quarta di copertina viene riportato un passo dal capitolo che Cesare Pavese (1908-1950) nella raccolta La letteratura americana e altri saggi (Einaudi 1962) dedica all’autore Edgar Lee Masters (Garnett, 23 agosto 1868 – Melrose Park, 5 marzo 1950).

Nella edizione einaudiana del 1971 della Antologia di Spoon River, diventata ormai un classico, sulla quarta di copertina viene riportato un passo dal capitolo che Cesare Pavese (1908-1950) nella raccolta La letteratura americana e altri saggi (Einaudi 1962) dedica all’autore Edgar Lee Masters (Garnett, 23 agosto 1868 – Melrose Park, 5 marzo 1950). Davanti ai morti che “dormono sulla collina”, Pavese riflette: “Si direbbe che per Lee Masters la morte – la fine del tempo – è l’attimo decisivo che dalla selva dei simboli personali ne ha staccato uno con violenza, e l’ha saldato, inchiodato per sempre all’anima” (Il poeta dei destini, edizione Il Saggiatore, 1978, p. 68). Mi è tornata la voglia di riprendere in mano questo libro della mia gioventù, assieme ai saggi di Pavese, di cui si ricorda il settantesimo anno della scomparsa, proprio alle soglie dell’anno dantesco. E di ripensare, con alcuni decenni in più sulle spalle da quando l’avevo acquistato in una libreria ora scomparsa, a quello che, attraverso l’esperienza, ho constatato negli ultimi anni. Come cronista del territorio, il secondo e amato mestiere, di quando in quando, come i miei cari colleghi, veniamo chiamati a seguire qualche funerale di giovani deceduti in incidenti, per lo più stradali, che lasciano nelle comunità di appartenenza un profondo strascico di sconcerto, smarrimento, disperazione. Spesso si legge nei commenti: “Era un giovane solare”. Una frase che richiama il tema della luce contrapposto a quello dello spegnimento e del buio che il concetto di morte porta con sé. E non di rado le esequie si dividono in due momenti molto netti: quello che accade in chiesa – perché la maggior parte dei funerali, a differenza dei matrimoni, si celebra ancora in chiesa – e quello che capita fuori, all’esterno del tempio. Sono spesso due cerimonie parallele, che non comunicano tra di loro. Ho visto gruppi di motociclisti aspettare l’amico scomparso sulle moto accese e rombanti per l’ultimo rumoroso saluto. Ho visto anche striscioni di gruppi che si ritrovano la domenica allo stadio e, in un caso, danze sul sagrato, a ricordare la passione dello scomparso per il ballo. Una situazione che Giacomo Leopardi (1798-1837) rievoca in un celebre passo dello Zibaldone, il 2994, quando parla dei giochi funebri degli antichi. Scrive il Recanatese: “I quali giuochi erano le opere più vivaci, più forti più energiche, più solenni, più giovanili, più vigorose, più vitali che si potessero fare. Quasi volessero intrattenere il morto collo spettacolo più energico della più energica e florida e vivida vita, e credessero che poich’egli non poteva più prender parte attiva in essa vita, si dilettasse e disannoiasse a contemplarne gli effetti e l’esercizio in altrui” (11 luglio 1823). L’ultimo saluto deve essere splendido, spettacolare, simbolico appunto. Ma se ragioniamo su simboli che spesso compaiono ai funerali, la conclusione è piuttosto sconcertante. In più di un’occasione ho visto la bandiera della squadra del cuore coprire il feretro e, accanto, una lattina di birra. Mi sono domandato il perché e allora, ricollegandomi alla vita quotidiana, ai fatti e ai gesti che la contrassegnano, sono arrivato alla conclusione che quella, indubitabilmente rischia di essere la sintesi di una realtà esistenziale in cui la produzione di simboli per “tendere fuori del tempo”, come ricorda Pavese, si ferma a forme elementari di aggregazione e condivisione della propria esperienza individuale. È amaro constatarlo, ma la crescente rarefazione simbolica, che fa a meno dei simboli cristiani e che si osserva da vicino in queste occasioni, rivela una condizione di isolamento esistenziale e culturale colmata dal riferimento al gruppo e ai suoi comportamenti più elementari. Un contesto in cui alligna la scomparsa di una sottile e ormai impercettibile patina di cultura e umanità, che rischia di svanire del tutto se non se ne rinverdiscono le ragioni e non si ritorna alle origini della nostra identità.

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