Dino Coltro, il cantore della civiltà contadina
Dino Coltro (1929-2009) l’ho incontrato quasi trent’anni fa, nel 1992. Gli telefonai per un’intervista, ero agli inizi, e mi rispose molto cordialmente invitandomi a casa sua, a San Giovanni Lupatoto...
Dino Coltro (1929-2009) l’ho incontrato quasi trent’anni fa, nel 1992. Gli telefonai per un’intervista, ero agli inizi, e mi rispose molto cordialmente invitandomi a casa sua, a San Giovanni Lupatoto. «Gàlo pratica?», mi disse dandomi tutte le indicazioni stradali. Feci tesoro dei suoi consigli e arrivai puntuale. Mi accolse e mi fece accomodare, ma volle che aspettassi un pochino in anticamera. «Sa, go da finire un pensièro», mi sussurrò col suo accento caratteristico, come se lo avessero strappato a forza dal suo lavoro. Il “pensièro” durò una mezz’oretta, e intanto potei vedere da vicino i suoi libri e una monumentale edizione integrale dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert. Non aveva altri appuntamenti e ci fu lo spazio per un confronto molto cordiale, a viso aperto. Anch’io ero curioso: volevo vedere cosa c’era dietro la macchietta costruita da Roberto Puliero per le sue trasmissioni satiriche che non risparmiavano frecciate ai potenti di turno e alle persone diventate improvvisamente celebri. Mi era rimasto impresso quel “Mi gusto le ruspe” affibbiato all’allora assessore allo sport Graziano Rugiadi che, secondo la narrazione di Puliero, passava le giornate a vedere sorgere il Palazzetto dello sport. E per Coltro, la mia situazione non era molto diversa. Mi ero preparato un sacco di domande, è vero, ma capii, ad un certo punto dell’intervista, che mi stava portando dove voleva lui. Era la sua storia che parlava, seguendo un “pensièro”, non c’era spazio per risate, così rare nel suo mondo. Al centro c’era la fatica quotidiana, vissuta tutto l’anno, salvo poche pause scandite dalle celebrazioni religiose e dalla sagra del paese, dove anche i pitòchi quando dicevano il Padre nostro, poi potevano vedere il pane bianco sulla mensa. Che non era però il pane quotidiano dell’oratio dominica, ma molto più spesso era sostituito dalla “Nostra polenta quotidiana”, poi il titolo di uno dei suoi libri più belli, edito nel 1990. «Continuavo a chiedermi – mi disse – se la vita della mia gente valesse meno delle altre vite che finiscono nei libri. Così ho cominciato a raccogliere queste fòle che grondavano di sudore e avevano il profumo del pane bianco che si mangiava a Pasqua e a Natale. Per il resto dell’anno polenta e bigolòti, quatro foje de salata e qualche òlta i capùzi con l’azedo». Eccolo il pensièro, la base da cui originava un’opera monumentale, scandita in varie fasi e raccolta in volumi, lungo un trentennio: dal primo romanzo dei Lèori del socialismo (1973) ai cinque volumi del Paese perduto (1982), a Fole lilole (1987) e Santi e contadini (1994). Qualcosa di simile a quello che Mario Rigoni Stern ha fatto per le genti dell’Altipiano: un monumento antropologico ad una civiltà che non c’è più, quella contadina, e che si basava su un canale di trasmissione non scritto, l’oralità. Raccontava Santo Dino (era nato il 2 novembre), mentre lo ascoltavo orami estasiato: «A dodes’ani ero in stàla a un quarto de salario. Ala sera stavo con me nono Moro. Là nel cùcio a riposare, mi con un libro in man. E el me contava de la guéra, del socialismo, dei scioperi contro i siòri e i paròni... Quele storie là je sté i me libri. Dopo son nà in zerca de quei che era restà e le ho solo scritte. Ma non potevo tradire la mia gente con la penna e rubare quelle espressioni e quel modo di parlare. Così ho scritto come parlavano allora». La sua chiave per entrare nel mondo era stata sempre il dialetto e vi rimase fedele fino in fondo. Ebbe accoglienze diverse, talune molto critiche per la sua opera. Rigoni lo difese a spada tratta dopo i Lèori: i due, che si capivano al volo, erano fatti della stessa pasta.
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