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I profughi? È “emergenza”...

“Emergenza profughi”. Sono di questo tenore i titoli che rilanciano e acuiscono la tensione, anche politica, in queste ore su un problema che non è certo nato ieri...

Parole chiave: Editoriale (407), Stefano Origano (141), Profughi (10), Emergenza (20)

“Emergenza profughi”. Sono di questo tenore i titoli che rilanciano e acuiscono la tensione, anche politica, in queste ore su un problema che non è certo nato ieri. Non siamo ingenui: si tratta di una questione strutturale che viene affrontata in modo emergenziale e cioè con il prurito di risolvere l’emergenza, magari scaricando la patata bollente su altri e così illudersi di stare a posto. Quando arrivano nuovi immigrati, non sapendo dove collocarli si tende a reagire secondo il noto proverbio veneto, che mette in guardia da “ci tende a la spina e spande dal cocón” (chi sorveglia la spina della botte e spande dal cocchiume).
La questione allora non è solo di cosa fare con quelli che arrivano, ma di cosa abbiamo fatto e di cosa abbiamo intenzione di fare con quelli che ci sono già. Non possiamo non notare che non siamo in grado, neppure a livello istituzionale e quindi burocratico, di distinguere le diverse tipologie di persone: c’è chi arriva dopo essere sbarcato fortunosamente qualche ora prima sulle coste italiane, oppure attraverso altre “rotte”; c’è chi è già dentro il nostro sistema da anni e sta facendo la lunga procedura per la regolarizzazione, ma non ha ancora una casa, pur avendo trovato un lavoro. C’è chi, infine, ce l’ha quasi fatta ad integrarsi, ma poi per rinnovare un visto o per un’altra pratica burocratica rischia di tornare alla casella di partenza e di dover ricominciare da capo in un gioco che ha dell’insensato. Credo che andrebbe riconosciuta una differenziazione anche nell’accesso agli uffici competenti tra chi inizia il percorso, rispetto a chi è già ben integrato, ma vive ancora in condizione di fragilità e necessita di supporto.
Fa male vedere e sentire che taluni rappresentanti di istituzioni se li passano come dei pacchi, preoccupati di togliersi di dosso un peso, un problema (si dice, più neutralmente, una “emergenza”) senza considerare le persone. Mi riferisco, per esempio, al fatto che, quando in alcuni territori si è riusciti a fare un po’ di sistema e a mettere in piedi una forma continuativa di integrazione, anziché far tesoro dell’esperienza e replicarla altrove, la si fa collassare perché altrove dicono, furbescamente: «Mandateli là che loro sono bravi e attrezzati, noi non possiamo!». Così non funziona.

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