Testimonianze di insegnanti che hanno scelto di continuare ad insegnare in una scuola paritaria rinunciando alla proposta di assunzione in ruolo presso la statale
Per questi prof pari non sono «Il nostro rifiuto al posto statale»
I docenti: più attenzione agli studenti e maggiore qualità dell’ambiente di lavoro
Cattedra statale o no? Davanti a questo dilemma, nell’immaginario una decisione quasi obbligata a coronamento di un percorso professionale nell’ambito dell’insegnamento, le risposte non sono univoche né scontate così come si potrebbe immaginare. Perché c’è chi, alla chiamata alle dipendenze dello Stato, ha risposto con un deciso “no”. Rifiuto ribadito, in alcuni casi, diverse volte. «Qui insegno alle persone» Insegna inglese al liceo classico e spagnolo al linguistico presso le Scuole alle Stimate il quarantacinquenne Francesco Lerario. Nelle aule di via Montanari è professore da quindici anni e ha rinunciato a ben tre cattedre statali. Non è che nella scuola dello Stato non abbia mai messo piede, anzi. Dopo la laurea in Lingue e letterature straniere e le necessarie abilitazioni, ha collezionato supplenze pure lì, per decidere di orientare definitivamente la propria carriera tra le mura di una paritaria, dove è stato assunto con un contratto a tempo indeterminato. «È una decisione che mi rispecchia dal punto di vista sia etico che umano – esordisce –. Qui insegno alle persone. Non che ciò non accada altrove, ma è l’attenzione all’individuo, in quanto tale, a fare per me la differenza». Pensare che esistano insegnanti di serie A o B è sbagliato e lontano dalla realtà, incalza: «Il percorso affrontato è lo stesso, tanto che le graduatorie dalle quali si attinge sono le medesime. I contenuti dell’insegnamento sono uguali». La differenza si gioca a livello organizzativo, evidenzia: «Nel rapporto quotidiano con la dirigenza, nella possibilità di mettere in pratica progetti concreti, nel rapporto diretto e di fiducia che si instaura con gli studenti e le famiglie». L’ultima cattedra statale l’ha rifiutata pochi giorni fa, confessa, senza rimpianti: «Sono felice e sereno. Diventare insegnante è ciò che ho sempre desiderato nella vita. Esserlo in questa scuola è ciò che voglio fare per sempre». «Ho scelto il lavorare bene» Altrettanto determinata è Tamara Morsucci, professoressa di matematica e fisica al liceo scientifico dell’Istituto don Bosco. Le sue prime lezioni le ha tenute con nomina statale, premette, ma da precaria. Tanto che, divenuta madre di tre figli, ad un certo punto aveva smesso di insegnare perché non riusciva più a conciliare routine lavorativa e ritmi familiari. Nel 2001, dai Salesiani le è stata offerta la possibilità di rimettersi alla lavagna: «Qui ho scoperto un nuovo modo di insegnare, in cui i ragazzi sono messi al centro. Mi sono trovata bene da subito: ho potuto dedicarmi ai figli, continuando a lavorare. Ho avuto la possibilità di crescere professionalmente. Non vedo il motivo di ritornare ad essere un numero nelle caselle dello Stato». A distanza di anni, qualche giorno fa ha ribadito il suo “no” alla possibilità di un posto statale, tra l’altro a due passi da casa. A cambiare non pensa minimamente: «Ho scelto il lavorare bene, non l’occupare una sedia con il rischio di cambiare continuamente classe senza valutare quelle che sono le mie competenze al di là delle abilitazioni. Qui ho avuto molto e posso dare ancora molto». Certo, ne è consapevole, un minimo di rischio a favorire una realtà che vive in base al numero di iscritti c’è, ma a fronte della professionalità garantita, l’ipotesi di un passaggio non viene nemmeno messa in conto. La parità, sottolinea, «non è dannosa. Aiuta la qualità. Per il resto, c’è spazio per tutti. E i genitori devono avere facoltà di decidere una via piuttosto che un’altra per educare i figli». «Più autonomia nei progetti» Nonostante la migrazione di docenti, il prof. Zaccaria Tommasi non è intenzionato ad insegnare Scienze motorie in una sede diversa da quella in cui è dal 1997. All’Istituto Seghetti è arrivato appena terminato l’iter universitario, dunque giovanissimo. Oggi, a 43 anni, ha un contratto a tempo indeterminato ed il medesimo entusiasmo degli inizi. Del resto, il liceo scientifico ad indirizzo sportivo, cui si affianca il percorso di potenziamento in ambito economico-sociale, è un po’ una “creatura” sua e di altri colleghi: l’ha visto crescere un anno scolastico dopo l’altro. Tanto da avere studenti in lista di attesa che ambiscono all’iscrizione. «La scuola per me è come una famiglia. Dal punto di vista professionale le soddisfazioni non mancano: in una paritaria riesci a realizzare progetti interessanti e a consolidare un rapporto di fiducia con gli studenti». Se l’ora di educazione fisica, volendola chiamare alla vecchia maniera, in certe realtà scolastiche è quasi la cenerentola delle materie, alle Seghetti la prospettiva cambia: con sei ore settimanali, a scansare le tradizionali due, ne esce nobilitata ed è fondamentale dalla prospettiva educativa. L’osservatorio dello sport, precisa, «obbliga a guardare alle esigenze delle persone piuttosto che ai numeri». Così, pochi giorni fa, Tommasi ha rifiutato due cattedre statali in un colpo unico: «Sul piatto della bilancia ho messo tutto. Ma a pesare è stata soprattutto la qualità, dal punto di vista professionale ed umano, dell’ambiente in cui insegno». «La retribuzione non è tutto» Nell’ascoltare le opinioni dei professori, la questione economica è di scarso rilievo. Lo ribadisce Mario Tedeschi Turco, 48 anni, docente di italiano e latino in un liceo paritario. È dietro alla cattedra da vent’anni. Per tre volte ha rifiutato il ruolo, sebbene nel concorso ordinato nel 1999 e tenuto l’anno successivo, abbia superato positivamente lo scritto, decidendo però di non presentarsi all’orale. A livello di superiori, dopo la chiamata all’Istituto Lavinia Mondin, non si è mai spostato da via Valverde. «La cattedra statale è ambitissima perché dà sicurezza: fino alla pensione hai lavoro garantito», ammette. Per il resto, è un terno al lotto: tra il ritrovarsi in un posto ottimo o in uno in cui regna la scarsa motivazione. «A parità di orario settimanale, un professore statale percepisce circa 200-250 euro in più», quantifica, ma non sono gli emolumenti a far la differenza. È comprensibile, dice, tenere conto del guadagno. «Personalmente ho privilegiato il fatto di stare bene dal punto di vista professionale in un ambiente pulito ed elegante per lo stile educativo». Alle dipendenze dello Stato, spiega, «non sai a cosa vai incontro e non è detto che rimarrai nella stessa scuola come in passato», visto che ogni tre anni, se un preside non decide in modo diverso, si rischia di cambiare aula o peggio struttura. «La distinzione non è tra statale o paritario, ma tra insegnare bene o male. Io credo in una scuola che fa didattica e cultura». Considerato ciò, a certe decisioni non si può proprio attribuire un prezzo.
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