Israele: politica “all’italiana” ed efficienza teutonica
di GIULIO PIGNATTI
Governi ballerini però lo Stato funziona e ha vaccinato tutti. Rimane il problema dei Territori palestinesi, dove non si vaccina
di GIULIO PIGNATTI
C'è un Paese che vede la luce in fondo al tunnel della pandemia. In Israele più della metà della popolazione è stata vaccinata con due dosi – rigorosamente Pfizer –. La percentuale cresce poi a livelli inconcepibili per noi europei se si guarda alle fasce più anziane, con più del 90% degli ultracinquantenni già al sicuro.
Tutto il mondo, dunque, ha gli occhi puntati sul Paese mediorientale. Sia con l’invidia di chi dovrà aspettare ancora qualche mese per raggiungere gli stessi risultati di immunizzazione, sia – soprattutto – con la curiosità di chi si trova davanti al più agognato dei sogni che si fa progressivamente tangibile realtà: il ritorno alla normalità. Una campagna così ben gestita farebbe pensare a un esecutivo nel pieno delle capacità operative. Appare allora stridente che proprio in Israele sia in corso una crisi di governo che si protrae da almeno due anni e che ha assunto ormai i caratteri dell’ingovernabilità.
Lo scorso 23 marzo i cittadini israeliani sono andati al voto per la quarta volta dall’aprile 2019. Come prevedibile, anche questa volta dalle urne non è uscito un verdetto netto e, per scongiurare un quinto ritorno ai seggi, sono necessarie nuove mediazioni e alleanze. Come del resto richiede un sistema partitico altamente frammentato, specchio di una società complessa con istanze spesso polarizzate.
Protagonista indiscusso rimane però Benjamin Netanyahu, il leader conservatore che guida il Paese dal 2009, un periodo di tempo che non ha eguali nella storia israeliana. Le elezioni di fine marzo erano innanzitutto un esame su di lui. I processi – per corruzione, frode e abuso di potere – che pendono su “Bibi” non sembrano aver influenzato molto i risultati. Tuttavia, la coalizione elettorale che lo sosteneva, fermatasi a 52 seggi in Parlamento (la maggioranza è 61), non può garantire la governabilità, e il Likud (il partito di Netanyahu) sta esplorando ora l’ipotesi di un’alleanza del tutto inedita con il partito degli arabi israeliani. Un cambiamento che dà l’idea di uno scenario instabile e in continua trasformazione, se si pensa che l’alternativa è l’alleanza con l’estrema destra anti-araba.
Ma è lo stesso quadro geopolitico complessivo del Medio Oriente che sta rapidamente cambiando, aprendo orizzonti fino a pochi anni fa impensabili. Con gli “Accordi di Abramo”, infatti, Israele ha aperto i canali diplomatici con alcuni Paesi storicamente anti-sionisti, innanzitutto petro-monarchie del Golfo come Emirati Arabi Uniti e Bahrein; ma la lista si sta già allungando. A Israele conviene coltivare amicizie in funzione anti-iraniana; agli Stati arabi aprire mercati con chi può fornire tecnologie all’avanguardia, in prospettiva di un futuro sempre più marginale del loro oro nero.
Ma torniamo alla situazione interna. Lo scenario politico caotico, la mancanza di una maggioranza solida e il fantasma della sfiducia popolare rispetto alle dinamiche di palazzo hanno una controparte nella grande rapidità ed efficienza della campagna di vaccinazioni. Le immagini del Venerdì Santo nella città vecchia di Gerusalemme, con centinaia di fedeli cristiani uniti in processione, raccontano di un Paese che sta uscendo dall’emergenza. Anche la Pesach, la Pasqua ebraica, ha visto tornare a riunirsi i nuclei familiari, separati nella stessa occasione l’anno scorso. Più in generale, ristoranti, luoghi della cultura e dello sport stanno riaprendo progressivamente.
La strategia è quella del “Green Pass”: vaccinati e immunizzati possono esibire, tramite smartphone o carta stampata, un certificato con il quale è permesso entrare nei locali chiusi, per la maggior parte ancora vietati, invece, ai non vaccinati. A questo esperimento guardano molte altre nazioni, anche se c’è chi fa notare le ombre dei rischi per la privacy e la creazione di forti diseguaglianze tra vaccinati e non.
«Non si può dire che si è tornati alla normalità – racconta a Verona Fedele Nadeem S., un medico israeliano che ha studiato in Italia e ha parenti a Verona – però presto sarà così, e il senso di sicurezza dato dai vaccini aiuta molto».
Con il numero di nuovi casi giornalieri al minimo dallo scorso giugno, insomma, Israele può iniziare a pensare seriamente al “post”, mentre si discute di rimuovere l’obbligo di utilizzo della mascherina all’aperto. Un’accelerazione solo sperata ancora a inizio marzo, con il Paese che usciva dal periodo più drammatico della pandemia (gennaio 2021) e dal terzo lockdown.
Decisivi sono stati l’ampia disponibilità di vaccini e il numero contenuto di abitanti (9 milioni), ma anche l’organizzazione capillare e la militarizzazione che storicamente contraddistingue Israele.
Non mancano però sfide ancora aperte, come quella della vaccinazione della popolazione sotto i 16 anni, che costituisce ben il 30% dei cittadini, per la quale l’obiettivo è fissato a maggio. Anche qualche zona d’ombra: una parte non irrilevante di “no-vax”, ad esempio tra gli ebrei ultraortodossi. E poi la questione palestinese: in Cisgiordania la situazione è all’opposto di quella israeliana, con la pandemia al suo apice e una campagna vaccinale allo stadio germinale (1% della popolazione inoculata).
Si ripete una drammatica dinamica rispetto alla quale a perdere sono i vulnerabili: l’Alto commissariato dell’Onu per i diritti umani chiede che a occuparsi della vaccinazione dei palestinesi sia Israele. Che però, nonostante l’occupazione delle terre, respinge la responsabilità. E questo mentre i cambiamenti geopolitici ed economici mediorientali lasciano il popolo palestinese abbandonato a sé stesso e allontanano la soluzione dei “due Stati” per la quale il Papa a Pasqua è tornato a fare appello.
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